“Un viaggio interiore che si sposta su un tappeto musicale intessuto di progressive, classic e pop rock”, è con queste parole che il pugliese Vito Solfrizzo definisce il suo nuovo album “La Terra dei Re”, un titolo lascia presagire testi dal sapore politico, di riflessione ed insofferenza. Dodici tracce scomode per qualcuno, uno sfogo per Vito Solfrizzo
Il disco si apre con la rockeggiante “Il paese dei sogni”: imponenti chitarre che invocano a non arrendersi mai e credere sempre nei propri sogni, nelle proprie passioni. Anche ne “La terra dei Re” le chitarre predominano anche se il ritmo rallenta leggermente. Raccontare l’insoddisfazione di un popolo non è semplice senza cadere nella retorica ma a Solfrizzo è riuscito bene. Con “Profumo di sabbia” si respira un po’ di romanticismo con un invito a dimenticare i vecchi ricordi per ricrearne di altri più belli. “Il dono dei furbi” è un energico grido di ribellione in contrapposizione alla successiva “America” dal sapore nostalgico di sogni ancora non realizzati. Ciò che appare evidente è che musicalmente è un album ineccepibile, suonato ed arrangiato magnificamente. Se proprio devo trovare un difetto è che i brani superano tutti i quattro minuti e mezzo con alcuni che vanno ben oltre i cinque: inevitabilmente l’attenzione tende a calare ed è un vero peccato: “Senza età” con i suoi 7 minuti e 18 ne è un esempio. Quando sembra che il disco si concluda in maniera degna, si ricomincia con “Cuore di razza” ed ancora chitarre elettriche con lunghi assoli e ritornello orecchiabile a dare il via a quel che sembra l’ascolto di un secondo disco. “Conquiblues” segue la scia delle precedenti. La seguente “Mi adatterò”, ha un sapore diverso pur restando fedele al mood dell’album…ha un sound meno “marcato” e per questo più piacevole, si ritaglia un proprio spazio tra le dodici tracce. E resta un esempio unico perché la successiva “U.R.A. Utopia Realmente Astratta” si riveste di prepotente rock per oltre cinque lunghissimi minuti. Onestamente è il brano che meno ha destato il mio interesse insieme a “L’ombra del sole”. Si chiude questo lungo ascolto con “Una canzone nel vento”: l’armonica sostituisce le chitarre elettriche, la voce bassa sostituisce la grinta di un intero album ma va benissimo così perché è qualcosa di diverso in un album che per sessanta minuti non offre diversificazioni risultando purtroppo stancante nell’ascolto.