Vi piace davvero la “musica accatastata”?

Una delle prime regole del giornalismo è quella di evitare, per quanto possibile, le autocitazioni. Ma questa volta dovrò, per semplici ragioni di praticità, venire meno a questo doveroso atto di correttezza  e di stile. Sul sito dell’Associazione Artistica AnniVerdi, quella che promuove Biella Festival Autori e Cantautori (www.biellafestival.com), in un’intervista rilasciata all’amica Anna Maria Mirante, ho parlato di “musica accatastata”. Ma cos’è la “musica accatastata”?

 

Con l’immediatezza che mi appartiene dirò subito che è la musica che non mi piace. Anzi, a non piacermi è il modo di concepire questo modo di approcciarsi alla musica, appunto, accatastato. Eppure, con sempre maggiore frequenza, nascono rassegne e progetti, dedicati alla musica, ma anche al cinema, al teatro, alla letteratura, ove chi organizza sente il bisogno di riempire forsennatamente i contenitori destinati a queste manifestazioni. Si parla di musica ed ecco decine di stand di gente che vende strumenti musicali ed organizza corsi di canto, chitarra, pianoforte e quant’altro; eppoi workshop, palcoscenici sparsi ovunque destinati a performaces che si sovrappongono, conferenze, dirette di radio private con amplificatori a tutto volume. Un’apoteosi di luci e suoni che ben presto diventano frastuoni. Scenari solo di poco differenti si presentano agli appassionati di cinema, con due o tre proiezioni per sera, conferenze, dibattiti, proiezioni in lingua originale finlandese o pakistana e così via. Stessa situazione anche in ambito teatrale. Insomma, si è diffusa la vocazione della kermesse farcita di tutto le cui avvisaglie già compaiono su manifesti e depliant con programmi fitti e sempre più illeggibili. Già, e gli artisti? Gli artisti, che dovrebbero essere i protagonisti assoluti, diventano il contorno di queste fiere colme di luci che non illuminano nulla. Perché una canzone, un film, uno spettacolo di prosa, un libro, devono essere ascoltati, visti, letti e, soprattutto….capiti. Ma se mentre un cantautore tenta di trasmettere un suo messaggio, oppure mentre viene proiettato un film o va in scena uno spettacolo di prosa o, ancora, se uno scrittore legge un brano del proprio romanzo e ad essi si sovrappongono altri suoni, altre voci, altre situazioni che attragono e distraggono ed a queste se ne sovrappongono altre ancora, allora viene meno quella condizione irrinunciabile che dobbiamo ad ogni espressione artistica: il rispetto. Kermesse di quel genere non rispettano gli artisti perché, in realtà, a loro non sono realmente interessati. Si tratta di operazioni ove si vendono a caro prezzo spazi e visibilità, non importa a chi e come, ma con un’unica unità di misura: il denaro. Conta quel che si vende non quel che si ascolta. Si sproloquia volentieri di migliaia di visitatori, ovviamente paganti, ma non si parla mai di pubblico, perché in quelle dimensioni non esiste un pubblico. Perché il pubblico è quello che sta in platea (sia essa un teatro o una piazza, beninteso) e l’artista è quello che sta su di un palcoscenico. L’artista si esibisce ed il pubblico assiste alla sua esibizione. Ogni dimensione al di fuori di quella è solo un’illusione venduta a caro prezzo perché le migliaia di visitatori che scorrono lungo i corridoi di una kermesse, appena usciti ricorderanno poco o nulla di quanto avranno avuto modo di vedere, mentre un pubblico al termine di una performance o di una proiezione, esprime un proprio giudizio su ciò a cui ha assistito, ha la consapevolezza di ciò che ha visto. E quindi ha rispettato il momento della performance artistica, riservandosi di apprezzarla oppure no. Gli artisti per primi dovrebbero essere in grado di cogliere questa fondamentale differenza, rifiutando di proporsi laddove la loro presenza rischia di essere marginale, anche se le “sirene”alimentate dal miraggio del business cercano di attrarli nelle loro trappole che promettono molto, ma quel che offrono è soltanto “musica accatastata”.

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