La ripresa dopo il coronavirus è iniziata. Ma sarà lenta. Molto lenta. E lo sarà ancor di più per i comparti dello spettacolo: musica, cinema, teatro, danza. E non solo perché i percorsi intrapresi da Governo e Regioni hanno previsto altre priorità. Ma semplicemente perché, almeno per un po’, si dovrà completamente ripensare al concetto stesso di spettacolo. Distanze tra una poltrona e l’altra nelle sale cinematografiche, altrettanto nei teatri, nessun assembramento di pubblico, il che significa addio concerti negli stadi e nelle piazze, precauzioni nei balli a due, il che significa non danzare e tante altre situazioni imbarazzanti e di non facilissima gestione. E poi, alla riapertura che proietteranno le sale cinematografiche? Le case di produzione sono ferme da mesi. In tutto il mondo. Le stagioni teatrali sono state chiuse in anticipo, gli incassi sono saltati, c’è e ci sarà gente che non riceve e non riceverà retribuzioni: tecnici, elettricisti, maschere, personale di sala, operatori culturali, manager, imprese che si occupano di services luci ed audio. E’ un panorama desolante di fronte al quale però non ci si deve arrendere. Quest’anno molti progetti salteranno, eventi, festival, incontri, recite all’aperto. Ma occorre incominciare a lavorare ora per ritrovare le giuste dimensioni il prossimo anno. Dimensioni che fatalmente non saranno più quelle che conoscevamo, non lo saranno chissà per quanto. Ma occorre ripartire. E ripartire dai piccoli eventi, da una rieducazione all’ascolto, all’approccio con lo spettacolo nelle sue varie espressioni, perché in questi ultimi anni si sono inseguite troppo spesso solo le logiche degli incassi. Si sono trascurate tante realtà attente ed operose, solo perchè estranee ai grandi circuiti. Ci si è piegati alla logica del “sold out” a tutti i costi, sino ad arrivare ad inventarselo, con mezzi e mezzucci che hanno illuso artisti, manager, pubblico, sostenitori pubblicitari, sponsor. Si è arrivati a dividere saloni per farne sale ove il tutto esaurito sarebbe stato più probabile, si sono usate finte pareti scure affinchè le riprese video o televisive non potessero rilevare vuoti inquietanti. Tutto ciò non serve e non è servito a nulla. La realtà è che la gente ascolta distrattamente la musica, i dischi non si vendono più, il pubblico teatrale è quasi interamente costituito da ultraquarantenni, al cinema si va per vedere Checco Zalone o i cartoon della Disney. Funzionano immancabilmente bene solo le grandi ammucchiate, quelle che con la scusa della musica, che in realtà è un fragoroso ma indistinto sottofondo, sono le feste della birra, della porchetta, della patata . E che almeno per un po’, non si potranno più fare. E allora si dovrà ripartire dal piccolo. Si dovrà comprendere che per la promozione della musica e di tutte le arti, non importa se non si fa il tutto esaurito, ci si dovrà abituare a vedere poltrone vuote in platea, ci si dovrà accontentare anzi, si dovrà gioire per quel pubblico, forse non così numeroso, ma che sta ad ascoltare, che commenta, che vuole confrontarsi e capire. La nuova crescita passerà attraverso quelle dimensioni e quelle consapevolezze. E neppure più potranno esserci i compensi faraonici per i big della musica e del cinema, perché non saranno più faraonici gli incassi. Un tempo, anche gli artisti più celebrati, per le loro esibizioni live, viaggiavano con un’auto e un furgone ove stavano strumenti ed amplificatori del gruppo che li accompagnava. Stop. Non c’era altro. Da quella versione, anche un po’ troppo minimalista, siamo arrivati, sino a tre mesi or sono, alle band con autotreni di materiali, decine di tecnici, operai, manovali, camionisti, addetti i servizi d’ordine, manager, uffici stanpa, palcoscenici grandi come piazze, limousine, impianti laser e richieste di cachet da centinaia di migliaia di euro. Devono e dobbiamo fare tutti un passo indietro. E forse anche più di un passo. Ma se fatto con la giusta consapevolezza, più che un passo indietro potrebbe rivelarsi una riscoperta, una dimensione nuova nella quale tutti quanti potremmo riconoscerci. E ritrovare il gusto di un divertimento più sano, più umano e se vogliamo badare all’etica, anche più giusto.
Giorgio Pezzana