Riprendo il discorso iniziato nel mio articolo precedente dal titolo “A proposito di emozione” nel quale contrappongo l’arte al business ed affermo di come spesso il secondo vada a scapito della prima.
Il talento artistico viene sempre meno considerato dai media, o peggio si tende a confondere la qualità esecutiva con il talento vero e proprio. Gli artisti emersi grazie ai recenti shows quali X-factor, Amici ecc, se ci facciamo attenzione, assomigliano un po’ ai vini D.O.C.: tutte le bottiglie hanno il medesimo gusto, anche se prodotte in anni diversi, ricalcano e rispecchiano le preferenze di una giuria che li nomina, poi li elegge. Il voto popolare (quello che avviene con l’uso del telefono) è spesso condizionato dal parere dei giudici e dalla diversa enfasi che questi dimostrano nei confronti dei destinati vincitori, rispetto alla quasi indifferenza che evidenziano nei riguardi di chi appare fin dall’inizio come escluso.Da questo automatismo deriva un appiattimento dell’originalità delle esecuzioni ed un certo stereotipo di cantante. I testi, tranne qualche rara eccezione, sono melensi e privi di reali contenuti innovativi, la musica è gradevole come anche la voce degli esecutori, ma lo stile latita parecchio. Alcuni tentativi di esercizio canoro, assumono poi delle caratteristiche addirittura allegoriche: è il caso di Marco Mengoni. Questi ha sicuramente delle ottime doti vocali, ma la sua originalità, sia esecutiva che coreografica mi arriva come una forzatura, quasi come se si fosse voluto costruire un personaggio. Mi capita che se ascolto Mengoni alla radio lo trovo piacevole, ma se lo vedo in tv, mi scade perché mi sa di tentativo di revival di alcuni cantautori del passato, peraltro mal riuscito e quasi grottesco. L’emozione che mi suscita è, in questo caso, assolutamente negativa. All’origine di queste forzature vi è la necessità di lanciare sul mercato gente nuova e questo avviene a costo di mortificare le qualità artistiche di questi ragazzi, esasperandone aspetti meramente metrici e vocali e di immagine “corporate”, travisandone la vena artistica e l’individualità, per sacrificarle sull’altare del ritorno economico immediato. L’artista diventa come un fotomodello, un mero esecutore di uno stile imposto da un entourage di persone che giustificano il loro operato affermando che ci sono delle regole di mercato e che, secondo loro, il mercato chiede quello che loro impongono ai loro artisti. Il vero artista è un leader, non un burattino. Il vero artista riesce ad emergere perché fa breccia nel cuore della gente, perché piace. Tutto questo però è tanto raro quanto casuale e l’industria discografica già in crisi a causa della pirateria informatica, deve invece fare profitti e subito.Investe sui nuovi talenti e li modella, appiattendoli. Come rimpiango l’era dei cantautori!