Il Festival di Sanremo ha mille difetti. Li ha da anni, non è una novità. Il primo e forse il più grave, è quello di non riuscire più ad essere rappresentativo di ciò che è o è diventata la musica in Italia. Potrebbe porvi rimedio? Certamente si. Rinunciando però a quei circuiti che sulla musica ci speculano e ci fondano il loro potere. Quindi sbaraccando tutto, compresa la convenzione con il Comune di Sanremo che sulla manifestazione regola i suoi rapporti con albergatori e fiorai della cittadina ligure? Certamente no. Il Festival di Sanremo è un’eccellenza italiana da 66 anni. Prima esportava musica. Ora ne importa forse troppa, anche se quest’anno la presenza di molti artisti italiani tra gli ospiti, fa pensare ad un ravvedimento, che probabilmente la crisi ha reso una necessità più che una scelta. Il Festival di Sanremo è una messa cantata per questo Paese e mi fanno sorridere gli ipocriti, gli snob, gli eccentrici che si aggirano al lavoro e tra gli amici ripetendo “….io il Festival di Sanremo non lo guardo mai…ma per caso mi è capitato di fare zapping e…”. In Italia il Festival di Sanremo lo guardano 11 milioni di spettatori (che salgono ulteriormente nella serata finale), il che rappresenta uno share del 49,7 per cento e, tradotto in dati statistici più leggibili, vuole dire che un italiano su due lo segue. Il vezzo del declamare ad alta voce “io non lo guardo mai”, mi ricorda i tempi in cui c’era chi giurava “…votare la Dc? Io? Mai e poi mai!…”, poi si andava alle urne ed il partito dello scudocrociato prendeva il 38 per cento dei consensi. Quando intrapresi l’avventura di questa rivista, dissi e scrissi che non avremmo parlato del Festival di Sanremo. Fu una stoltaggine perchè il Festival di Sanremo, anche per gli artisti del mondo indipendente, rappresenta una meta, un punto di arrivo, per alcuni un sogno. Non nascondiamocelo. Forse per molti non è amore, ma solo quel mezzo che consentirebbe di raggiungere una vasta notorietà, raccogliendo in tre minuti un pubblico che neppure anni e anni di serate live nei pub di tutt’Italia potrebbero portare. La televisione, lo ricordava simpaticamente anche Enzo Jannacci “…la ga la forsa d’un leun…”. Ed è vero. Anche se poi, senza un percorso artistico illuminato dalla buona sorte (ce ne vuole e ce ne vuole tanta) per un giovane emergente, un’esibizione sotto il fuoco d’artificio dei flash e dei riflettori del teatro Ariston, solo tre giorni dopo potrebbe risultare una sorta di sogno ad occhi aperti sempre più distante dalla realtà. Ma si tratta pur sempre di un’opportunità. E per questo dico che il Festival di Sanremo, per dare voce davvero alle potenzialità musicali italiane, dovrebbe sondare il mondo della musica indipendente, quella vera, non quella che cresce all’ombra delle Accademie o dei Cet e, men che meno, quella che viene alimentata dal mondo di cartone dei talent show. Ci sono rassegne e festival di settore che hanno alle spalle esperienze di decenni, organizzatori di queste manifestazioni che hanno visto passare davanti ai loro occhi talenti veri, chiedendosi perchè mai, quando si arriva alla presentazione dei nomi delle “nuove proposte” del festivalone, quei talenti non ci sono. E spesso al loro posto troneggia incontrastata la mediocrità. Da qui potrebbe iniziare la ricostruzione del festival più amato dagli italiani. Senza rinunciare alla nostra storia ed ai personaggi che l’hanno fatta, perchè certe ironie sugli anni di carriera di Patty Pravo o sull’età pensionabile dei Pooh appartengono al più becero pressapochismo. Quella è gente (oviamente non solo loro) che con le proprie canzoni ha scandito i migliori anni della nostra vita. L’obiettivo semmai dovrebbe essere quello di trovare altre Patty Pravo ed altri Pooh capaci di lasciare un’analoga traccia del loro passaggio tra le generazioni più giovani. Senza dimenticare mai chi questo percorso ha saputo compierlo.
Giorgio Pezzana