E’ davvero curioso, in questi giorni di concitazione sanremese, constatare come nell’approccio con questa grande kermesse vi sia un’Italia virtuale, cioè quella che qualcuno vorrebbe che fosse ed un’Italia reale, che è il Paese vero.
L’Italia virtuale è quella di alcuni colleghi, perlopiù quelli delle tre testate maggiori (Corriere della Sera, La Stampa e soprattutto La Repubblica) e pochi altri, che riescono a vedere un Achille Lauro da 10 in pagella ed a pronosticare la vittoria di Anastasio. Che se poi non vince, come hanno scritto Castaldo e Assante su “La Repubblica”, “spaccherà la primavera”. Poi c’è l’altra Italia, quella vera. Quella che guarda ammirata la settantaquattrenne Rita Pavone che in teatro, all’Ariston, riceve l’ovazione del pubblico; quella che, sempre all’Ariston, tributa una standing ovation ad Al Bano e Romina Power che ricantano “Felicità”, “Ci sarà”, “Nostalgia canaglia” e via replicando. Gli altri, quelli dell’Italia virtuale, ci sono da decenni. Sono quasi sempre i soliti, che hanno trascorso una vita a sognare un Sanremo diverso. All’epoca dei complessi (anni ’60 e ’70) lamentavano il fatto che a Sanremo non vincevano i gruppi. Formazioni che loro avrebbero voluto sul podio perché molti di questi, che al Festival arrivavano camuffati con farfallino e scarpe lucide, nei locali dove si esibivano, erano i portatori più o meno sani di stili e cover attinti dal rock e dal blues internazionale. Poi, gli stessi colleghi disfattisti, più avanti, accoglievano in ginocchio quegli ospiti stranieri che arrivavano all’Ariston in Limousine o in elecottero, strapagati, che spesso provavano a porte chiuse (Madonna, i Duran Duran….) lasciando fuori anche gli addetti ai lavori ma che, grazie a Sanremo, scalavano le hit italiane. E gli stessi sono sempre quelli che, in tempi più recenti, sono arrivati a dire, sia pure in crocchi separati nel caos della sala stampa, che è sciocco continuare a fare votare il pubblico e che si dovrebbe fare come al Festival del Cinema di Cannes ove a decretare i vincitori è solo l’apposita giuria di esperti o presunti tali. Guarda caso, ora si sa per certo che lo scorso anno Mamhood vinse grazie ai voti della cosiddetta “Giuria di qualità” schierata nelle prime file del teatro (esperti o presunti tali) perché, senza il loro voto, a vincere sarebbe stato Ultimo. Ma il segnale che una certa parte politica voleva lanciare, era quello dell’accoglienza e chi meglio di un italo-egiziano avrebbe potuto farsene, suo malgrado, interprete? L’Italia reale però è quella che ha visto vincere Roberto Vecchioni nell’anno in cui la sala stampa stava tifando spudoratamente per Elio e le Storie Tese (da qui l’idea sussurrata di non fare più votare la gente); ha visto vendere milioni di dischi a Toto Cutugno, che la sala stampa sbeffeggiava sistematicamente; ha visto il trionfo dei Jalisse in un anno in cui le attenzioni erano rivolte altrove. E tutto questo perché la gente ha sempre fatto scelte diverse, fortunatamente diverse, perché se a decidere delle sorti del Festival di Sanremo fosse stato quel manipolo di colleghi, il Festival non ci sarebbe più da anni. Ma perché, potrebbe chiedersi qualcuno, tutte queste pressioni per far sì che la manifestazione musicale più importante d’Italia si trasformi in un qualcosa di simile al concertone del 1° Maggio che si svolge a Roma? Politica, solo ed esclusivamente politica. Il tentativo di strumentalizzare per fini politici una manifestazione nazional-popolare per far credere alla gente di essere sempre prossimi ad una svolta, ad un cambiamento, ad un qualcosa che dovrebbe illusoriamente migliorare il Paese. I problemi del Festival di Sanremo non sono politici, sono le scelte musicali ancora troppo spesso legate alle pressioni delle major discografiche e dei talent, sono le formule troppo diluite e dispersive dello show, sono quella carenza di creatività compositiva che dura ormai da anni. Sono, semmai, questioni legate a interessi finanziari che hanno trasformato un festival di canzoni in un evento di costume fatto di mille interventi e partecipazioni. Con troppe chiacchiere e la musica che non è più la vera protagonista della manifestazione. O, quanto meno, non più l’unica.
Giorgio Pezzana