Alcuni lettori ci hanno chiesto la ragione per la quale la nostra rivista non si è in alcun modo occupata del concerto del Primo Maggio svoltosi a Roma, ormai tradizionale appuntamento annuale in occasione della festa del lavoratori. La domanda mi consente un paio di riflessioni, che solo in parte hanno a che vedere con la musica, ma che comunque vi sottopongo così come mi vengono, senza aspettarmi né applausi né condivisioni poiché mi è nota la criticità dell’argomento e quanto questo si presti a strumentalizzazioni di ogni tipo. Innanzitutto, deve davvero essere un giorno di festa quello del Primo Maggio? Un paio di episodi ai quali la ricorrenza si rifà sollevano in tal senso motivati dubbi. Il primo si rifà al 1886 ad Haymarket ove la polizia sparò contro i manifestanti e, l’anno successivo, una dozzina di persone, dopo altri scontri con le forze dell’ordine, furono impiccate per le manifestazioni dell’anno precedente. E in Italia, nel 1911, a Portella della Ginestra, esattamente il 1° maggio, la banda di Salvatore Giuliano sparò contro un corteo di lavoratori. Ci furono undici vittime. Sinceramente non mi pare che simili episodi giustifichino un festeggiamento. Pur se con questa ricorrenza si intendono ricordare anche alcune importanti conquiste per i lavoratori, a cominciare dall’orario di lavoro di otto ore giornaliere. Quel che avviene a Roma in occasione della festa dei lavoratori però, è un appuntamento musicale che negli anni si è sempre più trasformato in un’occasione di propaganda, mutuata attraverso la musica. E questo non mi sta bene. La musica è musica, le canzoni sono canzoni e i comizi sono comizi. Quando la musica e le canzoni diventano comizi, significa che si sta strumentalizzando un’espressione artistica per altri fini. E quando l’arte si traveste, non è più arte. Orbene, negli ultimi decenni, soprattutto il movimento dei cantautori, ha portato un’ondata di forte consapevolezza sociale anche nei testi delle canzoni. E la cosiddetta “canzone di protesta” ha assunto contorni e valenze spesso apprezzabili, soprattutto quando è stata capace di trasformarsi in momento di riflessione e confronto con le generazioni più giovani. Però, un panegirico come quello di Ascanio Celestini un paio di anni or sono o quello di Piero Pelù quest’anno (cito solo i primi due esempi che mi tornano alla memoria tra le decine che potrei citare), con la musica e lo spettacolo non hanno nulla a che vedere, hanno il solo scopo di cercare facili consensi al cospetto di una platea in buona parte già schierata, sono pensieri e parole a ruota libera, dettati da sensazioni personali di chi ha il privilegio di stare su di un palcoscenico a recitare, in quei frangenti, una parte non sua. Riprendiamo dunque il cammino della nostra ricerca musicale con serenità e consapevolezza, come del resto fa la stragrande maggioranza degli operatori del mondo della musica, dopo una parentesi che di anno in anno desta sempre maggiori perplessità.
Giorgio Pezzana