Circa un mese fa, in un bel pomeriggio di fine primavera, ero con Niccolò Fabi ed Agostino Marangolo. Uno di quei colpi di fortuna che non capitano spesso. Ci si confrontava su come si scrivono le canzoni, su come è cambiato il mondo della musica negli ultimi trent’anni. Agostino, nonostante i suoi decenni da protagonista della storia della musica italiana, decide di fare una domanda a Niccolò: ”…Ma quindi, secondo te, un emergente che non vuole passare dai talent show, come fa a sfondare?”. Avessi avuto meno timore reverenziale, l’avrei fatta io questa domanda a Fabi. Eppure, forse, non era questa la domanda giusta. Io credo che bisognerebbe interrogarsi, invece, su come il “culto dell’immagine” abbia ottenuto il dominio assoluto, anche in quello che dovrebbe essere per definizione il regno dell’udito: la Musica. Ad un certo punto, nel mondo della musica, il fulcro si è misteriosamente (?) spostato dalle orecchie, agli occhi. E questo non ha riguardato solo la discografia, ma anche la musica dal vivo. Mentre il “videoclip” diventava parte integrante e obbligatoria di una canzone di successo, i concerti diventavano sempre più necessariamente degli spettacoli in cui le scenografie e le luci prevaricavano sul suono. I talent show, la “semplificazione” (quando non l’impoverimento) delle produzioni musicali, sono solo sintomi, e nemmeno tutti, di questa sindrome da “tossicodipendenza dall’immagine”. Resta da capire, però, quale possa essere la cura. Io, lo confesso, di ricette non ne ho. Sono convinto, però, che ognuno di noi sia vittima e responsabile di tutto questo. Ed ognuno deve fare il suo, per guarire. Allora, forse, il fruitore della musica (perché, oggi la musica è un “servizio”, non più un prodotto) dovrebbe riabilitarsi all’ascolto. Come in una sorta di fisioterapia. Ascoltando ad occhi chiusi, allenando l’udito alle sfumature ed ai particolari, vincendo la paura del nuovo e dell’“impegnativo”. E ancora, forse, dovremmo entrare nelle scuole, prima che sia troppo tardi. Ad insegnare l’ascolto a bambini che il culto dell’immagine ce l’hanno ormai nel dna. E cosa dovrebbero fare, invece, quelli come me che la musica la fanno? Per questo, una ricetta ce l’ho: me l’ha data quel famoso pomeriggio Niccolò Fabi: “Secondo me, oggi un cantautore si deve chiedere perché scrive canzoni. Se scrive canzoni con l’obiettivo di diventare famoso, allora è meglio che lasci perdere. Fare musica originale, di questi tempi, non è il modo migliore di emergere. Se invece un cantautore scrive canzoni perché ha bisogno di esprimere ciò che pensa, questo problema non se lo pone nemmeno. Scrive le sue canzoni e le canta. Se poi è pure bravo, io credo che prima o poi viene fuori in qualche modo”. Sì. Noi dobbiamo scrivere e cantare canzoni per dire qualcosa, non per essere qualcuno.
Pier Dragone