Apprendo con stupore, ma anche con un sorriso, che i fans di Harry Styles (fa parte della boyband One Direction e non chiedetemi di più perchè non saprei che dire) avrebbero promosso una campagna per falsare il conteggio degli streaming nella graduatoria dei primi cento singoli più venduti su Billboard. Nei giorni scorsi, non so più in quale radio, ma poco importa ai nostri fini, si parlava con toni enfatici dell’assegnazione del “Disco d’oro” ad un artista, non ricordo più chi, ma anche questo è secondario, per la vendita di 25mila copie del suo cd. 25mila copie! Non che non lo sapessi, ma ogni volta non posso fare a meno di trasalire. Negli anni del boom italiano della musica, quelli compresi tra i ’60 ed i ’70, vendere 25mila copie, soprattutto se spinti da una grossa casa discografica, voleva dire candidarsi a cambiare mestiere. Cosa avrebbero mai voluto significare 25mila copie di un disco quando i big della canzone raggiungevano tra le 700mila ed il milione di copie vendute? Rifarsi al passato per il solo gusto del rimpianto serve a poco. Ma ripensarci per alimentare qualche confronto e porsi qualche domanda può invece essere molto interessante. Che cosa è cambiato in questi 50 anni, tanto da trasformare radicalmente il concetto stesso di discografia sino a farne una sorta di locomotiva ansimante che sta viaggiando su di un binario morto? E cosa ha portato torme di ragazzini a tentare di falsare i dati sulle vendite di un loro beniamino, quando ormai le vendite sono ridotte a cifre che solo sino a 30 anni or sono sarebbero state considerate assolutamente fallimentari? Innanzitutto le tecnologie. Finita l’epoca dei 45 giri, poi anche quella dei 33 (rimasti oggi solo come una forma quasi snobistica di approccio alla musica per pochi eletti e pochi artisti) si è praticamente chiusa l’era del vinile. Quella che faceva i grossi numeri, quella che ha scandito gli anni più fecondi della musica italiana (mentre a livello internazionale questo percorso era iniziato circa un ventennio prima, soprattutto se pensiamo agli States). Il sopravvento dei cd e quindi della tecnologia digitale, ha di fatto portato mutamenti rapidi e profondi. Intanto la fase d’avvio della musica sui cd cancellò, senza sostituirlo, il vecchio 45 giri in vinile (che negli ultimi anni, almeno come filosofia, si sta cercando di recuperare con il proliferare dei “singoli”. Una proliferazione che tradisce però un’altra realtà: si sta cercando di piazzare i singoli, che costano meno, per evitare o comunque ritardare il definitivo tramonto dei cd). Ma a farla da padrone incontrastato è lo “scaricamento” della musica da internet, legalmente ma soprattutto illegalmente, con la convinzione in quest’ultimo caso di dare prova di abilità nell’aggirare diritti d’autore e costi di produzione della musica, dimenticando che la musica rubata ucciderà la musica. Già oggi, supporti come l’Ipod o altre tecniche di “scaricamento” stanno di fatto annullando la tracciabilità della musica. Si ascolta un brano conoscendone a malapena l’interprete, ma senza sapere nulla di autori, musicisti, arrangiatori, senza disporre di una copertina, di un logo, tutto ciò insomma che contribuiva a fare entrare un brano negli archivi della storia della musica. L’epoca dell’usa e getta pare rendere marginale tutto ciò, ma tra dieci anni ci ritroveremo ad ascoltare musica recuperata chissà da dove senza ricordare neppure più il nome dell’interprete. E parranno molte anche quelle 25mila copie che oggi giustificano l’assegnazione di un disco d’oro, tra squilli di trombe e riflettori accesi, mentre solo pochi decenni or sono, quello stesso numero di copie vendute, rappresentava un segnale d’allarme per la carriera di un artista. Anche il tramonto dei “personaggi” contribuisce ai naufragi discografici. Ci fu un tempo in cui i fans di un cantante acquistavano il disco del loro beniamino perchè, di fatto, acquistavano il cantante e non la canzone. Giusto o sbagliato che fosse, accadeva. Come accadeva che si trascorressero pomeriggi sotto alla pioggia per vedere passare Gianni Morandi o altri big, perchè erano “personaggi”. Ma questo è un altro discorso, sul quale, semmai, ritorneremo.
Giorgio Pezzana