“Maximilian”, ultimo album di Max Gazzè, è un disco che fa pensare ad un film. Una pellicola nella quale lo sceneggiatore non si preoccupa del filo conduttore, non si preoccupa di raccontare una storia. Piuttosto cerca di suscitare, dal primo all’ultimo istante, la stessa precisa e definita sensazione emotiva. Più che un concept album, bisognerebbe definirlo un “mood album”. Sono dieci i passaggi. Dieci scene, indipendenti. Una profondamente diversa dall’altra.
Eppure tutte così tipicamente “sue”. Sì, perché Max Gazzè, pur nella sua ostinata ed infaticabile ricerca dell’“esperimento” (o forse proprio grazie ad essa), ha modellato il suo stile in modo inconfondibile, talvolta per lui inesorabile. I testi di Francesco Gazzè, con le caratteristiche rime interne al verso, con le irrinunciabili assonanze e consonanze, con le elegantissime scelte lessicali (splendida ad esempio la parola “martingale” nel brano “Nulla”, n.d.r.). I sintetizzatori che sembrano “dialogare” e che si impongono nel groove, rincorrendosi nei temi strumentali quanto nelle fasi di accompagnamento. Il rock che invade i brani in tutte le sue forme, dalle più classiche ritmiche in quattro quarti, ai richiami balcanici. Così come l’utilizzo di strumenti particolari come lo chalumeau, meravigliosamente suonato dal fedele Dedo in “In breve”. Questi sono gli ingredienti della ricetta Gazzè, riproposta in tutta la sua efficacia in quest’ultimo lavoro. Un album a cui si può criticare i soli trentacinque minuti di durata, oppure alcuni passaggi di testo meno intensi di ciò che ci si aspetta, in cui il romanticismo o l’ironia sembrano avere più importanza dei contenuti.