“L’indipendente italiano” è il titolo dell’album di DASP (al secolo Domenico Palopoli, musicista calabrese), otto tracce, tra le quale un intro ed un intermezzo, che alla fine risulteranno le due cose migliori dell’intero progetto. Dal che si può facilmente dedurre che, personalmente, l’album non mi ha per nulla convinto. Cercherò, brano dopo brano, di spiegarne le ragioni, anticipando che le mie perplessità non riguardano soltanto l’interpretazione vocale di ogni pezzo, le esecuzioni musicali e gli arrangiamenti, ma la struttura stessa di queste canzoni.
Dopo l’“Intro”, come detto piacevole, ecco il brano che dà il titolo all’album: “L’indipendente italiano” che si presenta con la voce incerta di DASP, a tratti coperta dalla musica, alle prese con una linea melodica della quale non si riesce a cogliere il senso. “Solo te” (ma non sarebbe stato meglio “Solo tu”, anche se è un titolo già utilizzato dai Matia Bazar?) ha un avvio rock dal quale a fatica emerge la voce che, di fatto, non appoggia un testo narrante, ma sfocia in una ripetitività che purtroppo incontreremo in pressochè tutti i brani. “L’incontro” ha ancora contorni rock ed una linea melodica incerta e si fa largo anche un altro aspetto che non sfugge: “fantassia”, “cossi”, “poessia”… non sono parole in italiano corretto; non si pretende certo una dizione teatrale in una canzone (sono tanti gli artisti che conservano inflessioni regionali nel loro cantato) ma una più corretta pronuncisa sarebbe doverosa. Spiace dover rimarcare questi aspetti, ma la composizione di una o più canzoni è un insieme di tante componenti che non sono solo quelle strettamente musicali ed il prodotto finito deve tenere conto di questi aspetti. “Intermezzo”, come detto per “Intro” , pur se di durata inferiore ai due minuti crea una bella atmosfera e quindi ecco “1960”, forse la canzone nella quale si cerca, più che in altre, di narrare qualcosa, anche se poi cade inesorabilmente nel vizio della ripetitività e vanamente l’arrangiamento prova a lanciare una improbabile scialuppa di salvataggjo ad un brano che va alla deriva. “Epoca lontana” ci riporta alla ripetizione ad libitum di una frase alternata ad una musicalità quasi sempre troppo fragorosa e si approda alla fine con “Vortice” che rivela un tentativo di ricerca in più affidandoci anche un finale più interessante, ma una canzone non può certo da sola riequilibrare un intero progetto. “L’indipendente italiano”, per quel che mi riguarda, è ampiamente al di sotto della sufficienza poichè non vi è nulla in questo cd che riesca a convincermi davvero. Ed in questi frangenti mi chiedo ogni volta se la schiettezza sia preferibile al silenzio. Ha prevalso la linea più scomoda. Ma forse anche quella più giusta.