Difficile dare una definizione del genere musicale degli Ataraxia: un misto di classica, folk, medievale, gotica. Atmosfere rarefatte, riflessioni spirituali e suggestioni introspettive. L’ultimo loro lavoro, “Lyr”, è tutto questo, e molto altro. Il titolo è mutuato dal nome dello strumento musicale a corde, la lira, che è stato presso molti popoli considerato sacro, suonato dai bardi celtici ed ispirato alle forme nobili del cigno.
E dunque, per comprendere meglio questo percorso particolare, abbiamo rivolto loro alcune domande.
Come definireste la vostra musica e perchè?
Immagina di entrare in una caverna oscura in cui suoni e luci sono percepiti in modo distorto, le immagini riflesse sulle pareti dell’antro sono una percezione del reale del tutto personale. Distaccarsi da una visione razionale, dalle certezze e dalle verità dogmatiche comporta una perdita ed un viaggio fra allucinazioni e visioni. La nostra musica è come un soffio, un sussurro, la celebrazione di un rituale. Un mondo ancestrale in cui il fuoco, l’acqua, i temporali, le piante hanno ancora una voce che ci parla e ci guarisce e ci aiuta a comprendere il senso della nostra permanenza nella vita ed appartenenza all’ordine del cosmo.
Cosa vi ha ispirato maggiormente sia agli inizi della vostra carriera che ora?
I viaggi nel mondo ma in particolare in Grecia, in Portogallo e lungo le coste del Mediterraneo. Le atmosfere e la storia di questi luoghi le “sentiamo” poiché, probabilmente, abbiamo già vissuta queste esperienze in altre vite. Fa parte del nostro sangue e della nostra visione.
Avete sempre dato molta importanza alle liriche. Che valenza hanno nel vostro lavoro?
Agiamo d’istinto sia per la scelta della lingua che per le influenze musicali. Le lingue sono bellissime ma poi ti accorgi che limitano l’espressione e vorresti usare suoni che appartengono a tutte e a nessuna, nella stessa frase, nello stesso momento e così le lingue nascono e si rinnovano ed è quello che abbiamo spontaneamente fatto. Le liriche ermetiche lasciano libero chi ascolta di astrarsi dalle parole stesse o di chiarirsi, di porsi domande o darsi risposte in modo non banale o coercitivo.
Negli ultimi anni avete portato la vostra musica anche all’estero. Com’è stata accolta, e quali paesi avete apprezzato maggiormente e perchè?
Possiamo considerarci musicisti apolidi poiché portiamo la nostra cultura in altri paesi e riportiamo qui esperienze e culture diverse dalla nostra. La nostra musica è fatta di tutti questi luoghi. Ci siamo trovati assai bene in America Latina, in Portogallo, in Germania, un calore e una partecipazione toccanti. Le persone vanno ai concerti e vivono l’esperienza musicale in modo profondo e totale, la musica fa bene alla loro vita e loro sono grati a chi gliela porta, di conseguenza è assai facile stabilire relazioni molto forti di scambio con gli ascoltatori di quei luoghi.
Com’è il vostro riscontro in Italia?
Si sente spesso parlare di quanto gli italiani siano narcisi e spesso superficiali, poco propensi ad uscire dalle loro piccole comodità quotidiane e a ad abbandonare, per qualche momento, un forte individualismo ed una certa ristrettezza mentale per affrontare e condividere qualcosa di diverso. Noi abbiamo sempre trovato calore nelle persone che ci seguono ma questo è stato in un certo senso un lavoro, bisogna proporsi, non avere paura a mostrarsi autentici, le proprie personalità non devono essere più importanti della musica che si propone. Insomma sono molti anni che portiamo la musica nelle strade, nelle piazze, nei giardini oltre che nelle sale da concerto…
Preferite l’attività live oppure quella in studio?
Le due fasi sono importanti allo stesso modo e sono figlie, naturalmente, di una fase ispirativa. I semi di quello che si crea sono stati gettati molto tempo prima, o forse sono sempre stati lì e qualcosa ha risvegliato il ricordo e l’esigenza di comunicarli in musica.