Considerando che tra poco sarò nel bel mezzo della bagarre della sala stampa del teatro Ariston, mi pareva quanto meno ipocrita ignorare in questo spazio “l’affaire” Celentano che in questi giorni ha riempito pagine di giornali. Capiamoci: Celentano è un big da 50 anni e “Un’altra Music@” è una testata che non è nata per dare visibilità e fiato ai “big”, bensì per proporre ai nostri circa 7mila amici in mailing list ed agli occasionali lettori che ci seguono, volti e proposte musicali nuovi. Appunto “Un’altra Music@”, pescando perlopiù nell’area indipendente. Ciò detto, non possiamo ignorare che il Clan di Celentano è stato tra le prime, se non la prima, etichetta discografica indipendente italiana.
E non possiamo altresì ignorare che questa testata, nel suo “banner”, ha scelto anche l’espressivo volto di Celentano per simboleggiare i momenti che hanno rivoluzionato il modo di pensare alla musica in Italia e nel momdo. Insomma, lui è un personaggio che in qualche modo sentiamo vicino al nostro pensare. E allora, dopo questa lunga ma irrinunciabile premessa, cominciamo dicendo che Celentano sta a Sanremo come un elefante potrebbe stare in una cristalleria: cioè rompe. Aveva rotto, lui e quelli del suo Clan, nel 1966, allorquando una commissione a dir poco ottusa bocciò, dopo la prima esecuzione, “Il ragazzo della via Gluck” destinato a diventare il brano simbolo del Molleggiato in Italia e nel mondo. Aveva rotto nel 1968, allorquando a Sanremo arrivò come un ciclone dopo avere cacciato Don Backy dal Clan, per cantare “Canzone”, cioè proprio il brano scritto da Don Backy ma contrattualmente di proprietà del Clan dal quale era stato esautorato. Aveva rotto nel 1970, anno che lo vide vincitore con “Chi non lavora non fa l’amore”, canzone discussa che suscitò reazioni pruriginose anche negli ambienti sindacali, ove qualcuno credette di intravedere una sorta di presa in giro nei confronti del lavoratori e delle loro rivendicazioni. Ed ha rotto, ancor prima dell’inizio del festival, anche quest’anno, accettando l’invito di partecipare ad una o più serate della rassegna sanremese, libero di esprimere il proprio pensiero, condizione irrinunciabile, da anni, per accaparrarsi la sua presenza. Ma, ad onor del vero, quest’anno a rompere non è stato lui, ma quel coro di sapientoni, giornalisti e non, che preoccupati di quanto potrà dire in diretta tv un Celentano a ruota libera, hanno cercato di toccare il tasto dell’indignazione, evidenziando, in tempi di crisi nera come questi, quale sarà il compenso che Celentano percepirà per la sua partecipazione al festival. Lo hanno fatto, soprattutto alcuni colleghi, fingendo (e sottolineo fingendo) di non sapere che Celentano devolverà tutto quel compenso in beneficenza. Dico “fingendo” perchè Celentano aveva annunciato, già diversi giorni prima che si scatenasse la bagarre, quali erano le sue intenzioni. Purtroppo c’è chi è talmente in malafede tanto che, come quei vecchi pugili suonati visti in alcuni film, continua a menare pugni nell’aria anche quando l’avversario è già sceso dal ring o addirittura quando l’avversario non c’è. Il quotidiano “La Repubblica” è tradizionalmente molto ostile a Celentano. Lo è perchè gli rimprovera, non dicendolo, di non portare rispetto a quella sinistra radical chic che parla forbito e sa (o dice di sapere) di politica e di strategie, assai più di quanto non possa saperne un Celentano qualunque, con la sua quinta elementare stentata. Il “Corriere della Sera” probabilmente non stravede per l’ex ragazzo della via Gluck, ma Celentano da qualche tempo collabora con il quotidiano milanese, sono state attivate alcune sinergie che appagano le esigenze di marketing di entrambe le parti e quindi, deve andar bene così per tutti. “La Stampa” è sulla linea di “Repubblica”, ma in forma meno aggressiva. Emblematico un titolo di prima pagina di questi giorni che nella prima riga parla di Celentano strapagato, ma nella riga successiva attenua i toni virgolettando una frase che rivela che il denaro andrà in beneficenza. “il Giornale” e le testate di centrodestra non hanno mai amato Celentano, percependolo da sempre in odore di sinistra, ma senza mai riuscire a pizzicarlo con le mani nella marmellata. Del resto, pochi giorni or sono, nel corso del suo intervento a sorpresa in quel di Genova, il Molleggiato aveva avuto parole severe sia per la destra sia per la sinistra, perpetuando, tra i cosiddetti “impegnati” il luogo comune di sempre: e cioè che Adriano Celentano sarebbe sostanzialmente un qualunquista (per i più benevoli) o un opportunista (per i maligni). Ed è questa la convinzione delle menti eccelse di un Paese ove necessariamente si deve essere o di destra o di sinistra poichè, in caso contrario, si è qualunquisti o opportunisti. Ho citato le tre testate più quotate in Italia, non a caso. Celentano piace invece nell’ambiente cattolico, anche se qualcuno nelle sacrestie mastica un po’ amaro per alcune frequentazioni considerate pericolose, come quella con don Gallo, “sacerdote di strada” genovese che non sempre è in sintonia con i dettati della Chiesa ufficiale. Ma Adriano Celentano, e questo è il suo vero ed unico segreto, piace a tanta, tantissima gente. Quella gente che quando lui appare in televisione si piazza in silenzio davanti al video per vedere cosa accadrà. Quella gente che fa audience e che colloca le apparizioni di Celentano in tv accanto ai più celebrati eventi sportivi o ai fatti di straordinaria portata. E questo significa che in quei frangenti la Rai diventa particolarmente attrattiva per gli sponsor, che quando c’è Celentano sanno di andare a colpo sicuro e sono disposti a sborsare cifre ingenti per promuovere i loro prodotti. Andando quindi a pagare abbondantemente il costo dell’artista, sia che poi lui decida di trattenere la pertinenza o di devolverla per scopi benefici. E’ anche per questo che è errato, oltre che scorretto, tentare di sollecitare l’indignazione della pubblica opinione sostenendo la tesi che Celentano viene pagato con i soldi di tutti, con i nostri soldi insomma, quelli del canone. Non è così. Chi conosce anche solo i rudimenti degli equilibri che regolano il rapporto tra programmi ed inserzionisti, sa bene che non è così. Ma poiché la corrente di chi si ostina a fingere di non saperlo rimane consistente, non è difficile ipotizzare che, dopo la prima apparizione del nostro sul palcoscenico dell’Ariston, ci sarà immediatamente qualcuno che chiederà che venga mandato a casa. Forse a farlo non saranno i colleghi seduti in sala stampa, ai quali le testate chiedono principalmente non tanto di parlare di musica (a Sanremo non lo si fa da diverso tempo) ma di costume, cioè di quel circo barnum che ruota intorno al festival. Lo farà invece qualche forbito opinionista dal salotto di casa, qualcuno che probabilmente quel pezzo ce l’ha già pronto nel cassetto e di tanto in tanto se lo rilegge, se lo ritocca, se lo coccola, con un sinistro ghigno di soddisfazione. Ebbene, non credetegli, perchè quel qualcuno tenterà di spegnere una delle ultime voci non omologate del nostro panorama artistico e televisivo.