Allora. Capiamoci. L’arte tutta, compresa quindi la musica, è un’insieme di espressioni che si sottopone a tanti singoli giudizi e ad altrettante sensibilità, che sono quelle di chi guarda e di chi ascolta. E la soggettività è la variante che definisce i giudizi, positivi o negativi, a seconda delle percezioni di ognuno. C’è però un limite invalicabile (o dovrebbe esserci) oltre il quale l’arte non è più arte, ma si trasfigura in un qualcosa di non più definibile, ma molto simile al paraculismo. E’ il caso di Tic Tac Bianconiglio, un trio milanese che ha pubblicato recentemente un album intitolato “Il volto di Lewis”.
Che sia difficile oggi assai più di ieri presentare prodotti in grado di suscitare interesse ed emozioni per la loro originalità è un fatto assodato. Però, che potrà mai significare questo frastuono indistinto che percorre tutte le tracce del cd, sovrastando quasi costantemente la voce femminile più o meno recitante, tanto da renderne indistinte buona parte delle parole? A che serve scrivere testi che poi nessuno riesce a cogliere nella loro intierezza? Ed a cosa dovrebbe condurre una musica ossessiva, ai limiti dell’inascoltabilità, che parrebbe sottintendere una sorta di alienazione che chi ascolta subisce, ma non capisce? Qualcuno ha definito la musica di questa band “alternative”. Ma non basta appiccicare un marchio ad un prodotto per giustificarne l’esistenza. E non servono neppure ingenue furbate come quella di uno dei tre componenti della band travestito da coniglio, poiché neppure di questo travestimento si coglie il significato. Si può apprezzare il coraggio per aver tentato disperatamente di dire qualcosa di nuovo e di diverso. Ma ci si ferma lì.