I MY DARKEST RED CON IL LORO GRAFFIANTE ALBUM “MIDNIGHT SUPREMACY”

Peccato per il primo brano di questo album, che forse è tra i più deboli dell’intera raccolta. Sto parlando di  “The house on the hill”, la canzone che apre il disco, uscito da pochi giorni, dei My Darkest Red intitolato “Midnight Supremacy” e caratterizzato da dodici tracce. Un album imperioso, direi quasi prepotente proposto da questa formazione dark’n’roll che è sorta dalla fusione di due band della scena rock bresciana, entrambe nate agli inizi degli anni Duemila.

Il progetto è consapevolmente sperimentale come dicono gli stessi componenti della band quando affermano “…in questo progetto abbiamo unito degli aspetti solitamente poco combinati tra di loro. Il disco presenta infatti varie sfaccettature in grado di attirare un ampio bacino di ascoltatori…”. E’, ovviamente, un rischio per almeno due buone ragioni: la prima è che in tal modo la formazione rinuncia ad un tratto definito della propria identità; la seconda, per certi aspetti riconducibile alla prima, è che l’impressione che se ne ricava è di una sorta di ricerca a caccia di ciò che potrebbe più compiacere chi ascolta. Tutto legittimo, sia chiaro, ma rimane la sensazione di un passo un po’ incerto. Ma veniamo alla musica: alle dodici tracce non corrispondono, naturalmente, altrettanti capolavori a cominciare dal brano di apertura che non risulta essere molto identificativo di un prodotto impegnativo qual è un album. Fortunatamente però seguono poi un paio di canzoni, specificatamente “By the moonlight” e “Tears in the snow” che graffiano come leoni incazzati, pongono in risalto la voce quasi epica del cantante, hanno una fruibilità immediata ed incorniciano la voce in un contesto musicale deciso, aggressivo, ma mai prevaricante. Si tratta di due tra i pezzi migliori dell’intero progetto, ai quali affiancherei “Only after midnight” e, solo un gradino più sotto, “Eternity” e “Miriam (She wakes up at midnight”. Ciò significa che almeno la metà del disco, a parer mio, è di ottimo livello e se su alcuni brani si scivola un po’, probabilmente è proprio per via di quel tentativo di accontentare una platea il più ampia possibile. Scivolare non significa ovviamente capitombolare, ma semplicemente offrire qualcosa di un po’ meno convincente, un po’ meno fruibile e fors’anche un tantino più anonimo. Un’ultima nota: la voce a tratti mi ha riportato ad alcune curiose canzoni di Tom Waits pur se in una diversità di generi lapalissiana. Concludo: è un buon disco per chi ama il rock più ruvido che strizza l’occhio al metal, la band è musicalmente coesa e determinata, dovrebbe solo darsi una cifra artistica definitiva.

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