Mentre piccole e grandi imprese, artigiani e commercianti, lanciano più volte al giorno allarmi e proclami sui disastri che i provvedimenti anticoronavirus potrebbero provocare all’economia nazionale, vi è un comparto, quello dello spettacolo, che pare essere in questi frangenti una realtà superflua di cui si parla poco e quasi soltanto per annunciare cancellazioni di serate, performances, allestimenti e concerti. A parte gli addetti ai lavori, pochi badano però al fatto che una serata cancellata, un film non proiettato, uno spettacolo teatrale che non va in scena, rappresentano un danno economico per chi, intorno a quei progetti, ci ha lavorato e ci lavora. Lo spettacolo è impresa, esattamente come lo sono l’industria, il commercio, l’artigianato e l’agricoltura. E se un’impresa non ha la possibilità di “vendere” i suoi prodotti è destinata al fallimento. Il problema è che tanta, troppa gente, se è disposta a riconoscere in un elettrodomestico, in un paio di scarpe, in un manufatto o in un chilo di patate prodotti d’impresa, non con la stessa immediatezza riesce a riconoscere in un film, in una canzone o in uno spettacolo teatrale i frutti di un investimento che per dare continuità ad un’attività produttiva deve essere ammortizzato e deve produrre degli utili. Da qui la comprensibile ansia di questi giorni in cui un decreto governativo, per altro condivisibilissimo, nell’ottica del contenimento della diffusione del coronavirus, impone la chiusura di teatri, sale cinematografiche e, in genere, di tutti quei luoghi ove lo svolgimento di attività legate allo spettacolo genera concentrazioni di pubblico con un esponenziale aumento delle possibilità di contagi. Niente lavoro, niente incassi e per un comparto già in costante difficoltà di sopravvivenza qual è quello dello spettacolo, il timore del tracollo è motivatamente dietro l’angolo. La musica in particolare, con il conclamato crollo delle vendite discografiche, si regge ormai sempre più sulla dimensione live che prevede concerti in locali, teatri e all’aperto. L’assenza di queste opportunità, eccezion fatta per gli artisti di primissima fascia, genera intuibili affanni economici che rischiano di mettere in ginocchio l’intero settore. In queste settimane sono in corso incontri e confronti su queste tematiche da parte di associazioni di categoria, organizzazioni di settore e artisti per valutare gli impatti di questa situazione e i possibili diversi scenari che potrebbero definirsi a seconda della lunghezza del periodo di “coprifuoco” che il coronavirus imporrà. Ma anche dall’area indie, quella degli artisti indipendenti e delle organizzazioni e festival che di loro si occupano, giungono segnali poco confortanti. In un’epoca in cui le istituzioni e le Fondazioni bancarie, che in passato hanno sostenuto questo comparto, paiono voler stringere sempre più i cordoni delle loro borse, il rischio di veder saltare rassegne e festival a causa dei provvedimenti anticoronavirus sta generando molto sconforto e preoccupazioni. Sarebbe dunque auspicabile, sia pure in un frangente di austerità controllata (non per tutti i richiedenti il metro dell’austerità è lo stesso) si valutasse l’ipotesi di riconoscere finanziamenti più significativi alle realtà operanti da tempo nel settore, tralasciando almeno per un anno le nuove richieste, riconoscendo in tal modo una valenza concreta alle realtà più consolidate. Tempi di emergenza richiedono provvedimenti di emergenza. Per tutti.
Giorgio Pezzana