David Ornette Cherry è il figlio di una leggenda che da questa leggenda ha saputo trarre gli insegnamenti più preziosi, senza divenirne prigioniero. Suo padre, Don Cherry, viene ricordato come uno dei più grandi jazzisti in assoluto e come colui che con Ornette Coleman, fu il fondatore del free jazz. David è oggi un musicista apprezzatissimo, un docente univesitario, un artista ed un uomo libero, che a questa libertà affida tanta parte del suo estro trasmettendo, attraverso la sua musica, non solo la composizione strumentale, ma anche e forse ancor di più, un modo di pensare alla vita. Lo incontriamo nella “Sala Musica” del Centro d’Arte Kandinsky di Biella diretto da Patrizia Maggia, per un workshop ed un concerto in duo con Jayadeva, che proprio con Don Cherry mosse i primi passi importanti del proprio cammino artistico.
David, era mai stato in Italia e, se si, in quali circostanze?
E’ la quarta volta che vengo in Italia. La prima fu nel 1980 con mio padre Don ed il suo gruppo. Poi nel 1982, ancora con lui nell’ambito di un progetto artistico che si chiamava Trio Codona. Nel 2008 sono stato invece in Sardegna con la mia band nell’ambito del Festival Internazionale del Jazz. Ed ora eccomi qui per questa nuova esperienza a Biella.
Lei ha citato suo padre. Che eredità le ha lasciato, oltre ovviamente alla possibilità di avere vissuto accanto a lui una grande esperienza artistica?
Un aspetto molto importante che ha saputo inculcarmi è stato quel senso di responsabilità che si deve avere quando si è musicisti, guardando anche alla dimensione più prettamente spirituale insita in un certo modo di pensare alla musica. Da lui ho imparato che la musica è un dono che si riceve e che allo stesso modo si deve essere capaci di restituire a chi ascolta. E’ quello che sto cercando di fare. (da “il Biellese”)
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Qual è oggi il suo concetto di musica ed a chi la offre, ricordando che statisticamente i maggiori fruitori di musica sono i giovani?
La musica deve essere principalmente sincera e per esserlo deve scaturire dalla convinzione che facendo musica in quell’espressione ci mettiamo noi stessi, Mio padre è riuscito a trasmettere a moltissimi musicisti l’esigenza di questa sincerità. Io credo che la musica non sia per i giovani o per gli adulti, ma per tutti coloro che hanno desiderio di ascoltare. La differenza generazionale si avverte solo perchè il pubblico adulto è più abituato a sentire i grandi della musica, li conosce, li ha seguiti per anni. I giovani invece hanno meno esperienze in tal senso. Sono all’inizio del loro cammino.
In un mondo fatto di marketing e commercializzazione di ogni cosa, lei come promuove la sua musica e quali canali predilige nell’epoca in cui la dimensione discografica non pare più una scelta vincente?
La mia musica è online. E’ la dimensione che preferisco poichè tanti vi possono accedere. Ed anche perchè, dal punto di vista operativo, mi assicura una grande libertà. Quando ritengo di avere qualcosa di interessante da comunicare, la metto online.
Quindi gli uffici della case discografiche, gli studi di marketing, i progetti di commercializzazione, i management, non sembrano rientrare nel suo modo di essere musicista…
Ho un team che segue il mio lavoro, ma non si tratta di un management come siamo soliti intenderlo. Io voglio avere la libertà di non circoscrivere le mie intenzioni musicali su basi prestabilite. Sono partito dal jazz, ma da una decina di anni mi sto occupando anche di altri percorsi musicali. E mi sento di farlo proprio perchè sono rimasto estraneo a certi vincoli. Recentemente ho anche scritto musica per il teatro e nel 2003 ho vinto l’Ascap-Chamber Music America Awards ed è un riconoscimento che ben rappresenta la mia dimensione.
Un progetto più ampio che vuole in qualche modo sfuggire alle “etichette”…
Come tutti i musicisti in realtà non mi piacciono le etichette. Pur essendo stato avviato al jazz da mio padre, poi ho intrapreso diversi altri percorsi. Non dimendichi che noi veniamo originariamente dall’Africa ed approdammo negli Stati Uniti come schiavi. Oggi è davvero incredibile constatare come le nostre radici abbiano saputo ramificarsi, attraverso il jazz ed il soul, nel mondo occidentale.
Lei oggi, guardando alle sue esperienze ed ai riscontri che ha ottenuto e sta ottenendo nel mondo, ritiene di avere raggiunto il suo obiettivo?
La musica ha infinite forme. E’ proprio questa la caratteristica che dovrebbe contribuire a mantenere i musicisti umili. Io ho iniziato nel 1974, ora credo di avere accumulato esperienze sufficienti per poter pensare a come si fa la musica, anche se c’è sempre qualcosa da imparare. Questi principi credo non valgano solo per la musica, ma anche per la vita di ogni giorno.
Cosa intende trasmettere a coloro che parteciperanno al workshop di questi giorni?
Ci sarà la barriera della lingua, lo so. Ma so anche che la musica è un linguaggio universale e ciò che vorrei dire ai partecipanti è che è molto importante apprendere l’arte dell’ascolto. E’ fondamentale sapere ascoltare ciò che una persona ha da dire per comprendre cosa intende trasmettere. Purtroppo molti artisti oggi hanno perso l’orecchio all’ascolto. Vorrei dire a questi ragazzi che la musica non è solo entrare in sala e suonare con l’ausilio di tutte quelle tecnologie, che possono anche produrre qualche buon effetto. Si deve sapere trasmettere qualcosa di più profondo e vissuto. Eppoi vorrei parlare di improvvisazione, perchè anche la musica può diventare frutto di improvvisazione, proprio come accade nella vita di ogni giorno.
E poi ci sarà il concerto di lunedì sera con Jayadeva…
Sono molto contento per questo incontro musicale con Jayadeva. Lui ha conosciuto mio padre, insieme hanno condiviso momenti intensi di espressività musicale. Entrambi abbiamo fatto nostra la consapevolezza che la musica è un qualcosa che vive in te e che tu devi riuscire a trasmettere agli altri. Solo in questo modo la musica continuerà…