“Le dita nelle costole” è il titolo dell’album di Jena Lu (al secolo Mirko Lucidoni), cantautore di Teramo quarantaquattrenne con alle spalle un percorso musicale avviato nella seconda metà degli anni ’90.
Questo album dovrebbe essere una sorta di progetto-sintesi della sua maturità artistica, ma sin dal primo brano, la sensazione è quella di trovarci al cospetto di un lavoro forse troppo atteso e, alla fine, rimasto al palo. Non convince la voce di Mirko, troppo influenzata dalla dilagante moda delle vocali vomitate che, alla fine, generano una sorta di omologazione vocale che impoverisce tutti. Non convincono le canzoni che via via ascolto, sempre sperando di individuare uno slancio, un bel giro di note, un colpo d’ala che non arriva. Non convincono gli arrangiamenti, che dopo un po’ di brani risultano piatti, privi di una ricerca strumentale adeguata, senza individualità di rilievo. Spesso lascia perplessi la linea melodica, con una metrica non sempre fluidissima o, come nel caso di “Chiudendo gli occhi”, ripetitiva nella prima strofa sino all’ossessione. E, infine, appaiono estremamente fragili i testi, che raccontano poco. Ed anche un brano come “La stanza” che chiude l’album, introdotto da un interessante “giro” di chitarra, nel momento un cui parte il cantato diventa uno strillo ciò che invece andava sussurrato. Si può apertamente parlare di un lavoro poco riuscito, con la consapevolezza (lo suggerisco anche a Mirko) che nel variegato e confuso mondo della critica musicale, nulla può esclude che altri possano invece riscontrare in questo lavoro aspetti di positività. Personalmente, sia pure con rammarico, ma con la sincerità che mi sono sempre imposto facendo questo mestiere, non posso che dare una valutazione decisamente insufficiente all’intero progetto. Comprendo bene quanto un cantautore cerchi di mettere nelle sue canzoni i propri stati d’animo e non è in questo caso la sensibilità di Jena Lu ad essere messa in discussione, ma è la qualità musicale dell’insieme.