“Passion Obsession” è il titolo dell’ultimo album degli Uncledog, dieci tracce di rock che definirei “da trasferimento”, pensando ad un lungo viaggio in auto in solitudine con questo supporto che reca ventate di buona musica, senza però mai risultare troppo impegnativo; che ha una cifra artistica abbastanza definibile, ma non svetta per particolari originalità; che pone in risalto buone e talvolta ottime individualità strumentali, senza però mai troppo concedere all’autoreferenzialità.
Dieci tracce che forse avrebbero anche potuto essere otto, considerando che almeno in un paio di casi siamo al cospetto di brani non irrinunciabili. L’avvio non è entusiasmante, “O.E.K.E.” scorre via proponendoci solo (ma non è poco) una vocalità che risulta subito interessante e che si confermerà per quasi l’intero progetto, oltre ad un paio di sensazioni anni ’70, che per altro riscontreremo anche altrove. Ma nulla di sgradevole, proprio perché anche questi richiami, laddove vi siano o comunque siano come tali percepiti, non spostano il timone rispetto alla direzione di questo lavoro. Che si fa poco dopo assai più coinvolgente con “Four Leaf Clover”, brano ben ritmato, ben arrangiato, tanto da riuscire in un paio di momenti ad allontanare come fosse Satanasso la tentazione, ahimè diffusa in molti ambienti rock, di sovrastare il cantato con una strumentazione che si fa troppo massiccia. Ma il percorso è nel complesso piuttosto lineare, anche se in “First Time”, non so se la percezione è solo mia, vi sono un paio di tentativi di scivolare verso un epic rock molto moderato, ma si rimane comunque saldamente nella direzione prescelta. Che ci conduce verso il brano intitolato “Wow”, della durata di poco meno di sette minuti, in cui pare di ascoltare due diverse tracce, legate tra loro solo dalle note della chitarra elettrica che si concede, meritandoselo, uno spazio piuttosto vistoso. C’è poi anche una avvio che parrebbe quasi un melodic –rock in “Anything Else”, ma ancora una volta si rientra rapidamente nei ranghi portando a termine un percorso che non ha più scossoni. Indiscutibile la dimestichezza strumentale del quintetto, così come appare evidente che la dimensione live può certamente offrire qualcosa in più di quanto non si riesca a cogliere dal semplice ascolto dei dieci brani. Ma c’è mestiere e si percepisce anche nei momenti meno felici di questo progetto che, lo ripeto, non ha picchi musicalmente elevatissimi e ancor meno originalità, ma neppure accusa crolli rovinosi, neppure quando coinvolge meno chi ascolta. Che probabilmente, giunto alla decima traccia, con ancora un po’ di strada da fare, potrebbe non trovare sgradevole ricominciare daccapo, almeno per riascoltare le canzoni migliori.