Darman (al secolo Dario Mangiacasale, calabrese di stanza a Torino) è un ottimo chitarrista, nonchè un buon compositore. Ma non è un cantautore. Semplicemente perchè il cantautore è colui che racconta storie, sensazioni, emozioni, colori e dolori. Lo fa con l’ausilio di testi che diventano canzoni. Ma questi testi devono essere l’elemento capofila delle canzoni. E nel caso di Darman non lo sono mai, semplicemente perchè, salvo sprazzi colti qui e là, di questi testi non si riesce a cogliere una parola. Tant’è che i due brani migliori dell’album “Necessità interiore”, pubblicato pochi giorni or sono, sono i due strumentali sulle dieci tracce proposte.
Tutto inizia con “Pubblicità riflesso” che apre con schitarrate rabbiose che mi accompagnano verso la percezione remota di una voce affossata dai suoni. Cerco conforto in “Viaggio miraggio”, ma anche in questo caso, anzi, forse in modo ancor più evidente, mi rendo conto che il cantato è funzionale alla strumentazione e non viceversa e tutto affonda, anche qui, in un mare di suoni di un rock un po’ isterico ed un po’ abusato. “Splash” apre con la batteria e un ascolto più attento mi consente di cogliere qualche parola, ma soprattutto di comprendere che questo lavoro può risultare musicalmente interessante laddove ci si rassegna a percepire solo confusamente la voce di Darman. Di “Dora e Picasso” colpisce in modo più spiccato la ritmica mentre “Mayday” conferma soprattutto una chitarra istintiva e piacevole (sempre fingendo che non eiststa un cantato). Il brano dal titolo impronunciabile “Ardhanarishvara”, almeno nella fase iniziale, lascia percepire alcune frasi dal senso compiuto prima che la voce torni a sprofondare nei vortici. “Silenzi dimenticati” è il brano più bello dell’album, qui finalmente Darman rinuncia a cantare ed il pezzo si snoda piacevolmente ponendo in risalto indirvidualità strumentali notevoli. Con “Tangibile” si torna alla dimensione che caratterizza tanta parte del cd, mentre “Quotidianità” offre nuovamente qualche sprazzo di voce comprensibile, ma soprattutto una sontuosa chitarra che chiude il brano. E si approda all’ultima traccia, “Deformazioni”, nuovamente solo strumentale, ancora un bel brano ed ancora la chitarra di Darman che impone una domanda: perchè ostinarsi a cantare quando si è chitarristi di questo livello? Questo album, che negli intenti dichiarati dell’artista dovrebbe ruotare intorno ai valori dell’amore puro, dell’arte, delle ispirazioni, dei ricordi più intimi, in realtà cì consegna alcuni brani musicalmente ben eseguiti, ma non una sola frase che possa in qualche modo farci ricordare, con le parole, i sentimenti che Darman ha tentato di esprimere. Delle due l’una: o Darman non si avvede che con la voce non riesce a dar colore alle sue emozioni, oppure il dazio che sta pagando ad un rock troppo ridondante è davvero eccessivo.