Il Cantacronache nacque a Torino sul finire degli Anni Cinquanta per iniziativa di un collettivo di musicisti, intellettuali, poeti e scrittori con l’intento di “evadere dall’evasione” incentivata dalle rassicuranti canzonette sfornate dall’industria discografica italiana dell’epoca.
Il nuovo canzoniere ideato dai fondatori Michele L. Straniero e Sergio Liberovici, che raccoglierà lungo il suo percorso anche preziosi contributi di Italo Calvino, Gianni Rodari, Franco Fortini e Umberto Eco, guardando alla Francia di Brassens e alla Germania di Brecht, recuperava le forme espressive dei cantastorie per veicolare temi sociali e politici strettamente legati all’attualità e alla vita reale. Non è azzardato affermare che i Cantacronache rappresentarono lo snodo cruciale di connessione tra la nostra musica popolare e l’esperienza dei cantautori. A distanza di oltre mezzo secolo, torna oggi ad imporsi un’evasione, non solo dall’evasione stessa, ma anche dall’appiattimento culturale, dall’imbarbarimento del confronto politico, dalla confusione mediatica, dalla deriva tecnologica, da un giornalismo a caccia di sensazione più che di riflessione. Per offrire uno spiraglio di luce e di pensiero a questa “società della negazione” e per restaurare il dominio del genio sulla tecnica, un nucleo di artisti riunito sotto la denominazione “Il Cenacolo di Ares” ha dato vita ad un Nuovo Cantacronache che si riallaccia proprio a quel discorso interrotto raccogliendone l’eredità storica, poetica e morale. Il progetto – culturale ancor prima che editoriale – si articola in diverse collane musicali e letterarie che vedono in prima linea, tra gli altri, artisti del calibro dell’attore-cantastorie Beppe Chierici (traduttore e interprete di Brassens), Mireille Safa, Malva, Igor Lampis, Giuseppe Mereu. Il Nuovo Cantacronache riporta il centro focale della canzone sui contenuti, serbando memoria della Storia ma al tempo stesso muovendosi ingranato in presa diretta con le questioni politico-sociali del presente, esposte con lucidità e irriverenza su strutture musicali semplici e funzionali mutuate dalla tradizione: ne scaturiscono brani essenziali, scritti a mano con sapienza nobilmente artigianale in un cesello di rime baciate, che in una forma e in una lingua apparentemente remote parlano di cose che ci riguardano da vicino. “Le chitarre sono armi da strapazzo: non sparano, non servono più a un cazzo”, canta sarcastico Chierici; eppure nelle sue parole non c’è disarmo, ma piuttosto una consapevolezza profonda che non scalfisce il sogno. E in un tempo in cui perfino molti ventenni sembrano incapaci di qualsiasi slancio verso un’utopia o un progetto collettivo, il canto a voce rotta di quest’uomo di ottant’anni suonati, con il suo garbo antico illuminato da un’intelligenza fine e da un’ironia vivace, non può non scuotere e commuovere.