L’immagine più ricorrente di questa estate ormai passata è quella di tante piazze, tante transenne, tanta gente pigiata dietro a quelle transenne con in mano birre gigantesche e cellulari per fare i selfie, senza smettere mai. Su tutto, un gran frastuono a fare da tappeto musicale al nulla. Inutile ed insensato correre con la memoria alle mie estati da adolescente scandite in ogni dove dalle voci di Mina, Celentano, Morandi, Patty Pravo, Rita Pavone, solo per citare le glorie nazionali. Gli anni sono passati, le mode sono cambiate e ultimamente per la musica sono tempi estremamente difficili, tempi in cui mancano le idee, mancano i personaggi e, soprattutto, manca la voglia di ascoltare. Se in buona parte di quelle adunate giovanili di piazza (ma non sempre solo giovanili), fermaste improvvisamente la musica e chiedeste a ciascuno che cosa si sta ascoltando, ben pochi avrebbero una risposta. Ed anche laddove non sono i dj a mandare canzoni, ma c’è una band che suona, un cantante che canta, se voi chiedeste ai presenti affossati nella bolgia di quegli istanti chi è la band o chi è il cantante, pochissimi avrebbero una risposta. Tutto ciò rivela tristemente che in realtà, in quei contesti, il vero interesse non è per la musica in quanto tale, ma per la coreografia che offre e che fa da sfondo a libagioni quasi sempre eccessive, allo stare con gli amici, al ridere, al gridare, al parlare senza riuscire a farsi sentire, al far tardi la notte senza un perché. E allora, chi di musica ci vive, chi se ne occupa stando su di un palcoscenico, in uno studio discografico o dietro ad una scrivania, qualche legittima domanda se la pone. Tanta gente non sa più prestare ascolto ed attenzione alla musica perché non è quasi mai buona musica, oppure la musica non è quasi mai buona perché intanto chi la fa sa che non troverà ascolto ed attenzione? Senza muovere accuse e senza fare inutili confronti con il passato, un fatto è certo: sempre meno la musica rappresenta la colonna sonora dell’esistenza di ciascuno di noi, sempre meno una canzone diverrà “quella canzone”, quella con la quale ci si è innamorati, quella che ha scandito un incontro, quella che ci ricorda un momento particolare della nostra vita, o un’epoca. E se anche “quella canzone” ci fosse, tra 20 o 30 anni sarà molto difficile riascoltarla perché la musica sta perdendo anche la sua tracciabilità. Chi ancora ha la voglia di ascoltare canzoni, quasi mai si ritrova tra le mani un supporto, una fotografia, un titolo, un marchio discografico, dei nomi di autori ed interpreti, come avveniva nel tempo dei vinili, ma anche successivamente, quando qualche cd ancora si vendeva. Oggi chi ancora ha voglia di ascoltare le canzoni, spesso le sente quasi per caso in radio, oppure ci si imbatte navigando in rete. Certo, per qualche giorno, forse per qualche mese, capiterà anche di ricordare un titolo, un nome, ma poi tutto svanirà e non rimarrà un supporto che possa ricapitarci in mano tra 20-30 anni per ricordarci l’emozione vissuta nell’ascoltare quel brano. Verrà insomma progressivamente meno la storia della canzone, che è una storia che sino ad un certo punto è stata importante perché le canzoni sono state, sino a qualche anno fa, parti integranti della nostra vita. E potrebbero ancora esserlo, sia quelle attualissime sia quelle che appartengono al patrimonio infinito del passato. Ma per esserlo occorrerebbe che la scuola inserisse nei suoi programmi l’educazione all’ascolto e un’ora alla settimana di storia della canzone. Nulla si sarebbe mai saputo se non ci fosse stato chi ce lo ha insegnato. E vale anche per le canzoni. A patto che se ne riconosca l’importanza sociale ed il rilievo che la musica ha nei percorsi di vita di ognuno di noi. Una scuola davvero innovativa dovrebbe prevedere anche queste pagine di storia, creando i presupposti per scriverne altre, a vantaggio di chi verrà.
APRIRE LE PORTE DELLA SCUOLA ALLE CANZONI
- Ottobre 9, 2019
- 11:54 am
- Nessun commento
- Di Giorgio Pezzana
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