A Sanremo anche gli indipendenti si travestono

Delle 22 canzoni presentate al Festival di Sanremo, la metà se le spartiscono la Sony Music e la Universal Music, due sono targate Emi ed altrettante sono state presentte dalla Warner Music Italia. Solo due sono etichette indipendenti, ma è un’indipendenza particolare, nel senso che si tratta delle etichette con le quali autoproducono i loro lavori Eugenio Finardi (Edel) ed i Matia Bazar (Bazar Music).

 

Questi dati rivelano lo strapotere delle major nei meccanismi della rassegna che rimane il più importante appuntamento musicale (almeno come evento televisivo) in ambito nazionale. Le stesse nuove proposte, in alcuni casi vicine all’area discografica indipendente, prima dell’approccio sanremese, se le sono spartite Sony, Universal, Emi ed Rtil quasi come se solo le major fossero in grado di confezionare un prodotto sanremese convincente. E forse è così, poiché Sanremo, soprattutto per un giovane artista, è un investimento. E gli investimenti contemplano quella disponibilità di risorse necessarie soprattutto per un’adeguata operazione di marketing e comunicazione. Ma, allora, come facevano negli anni Sessanta e Settanta, tante piccole realtà discografiche, ad approdare al festival di Sanremo? Ad onor del vero, anche in quegli anni etichette come la Rca e la Cgd-Cbs di Sugar spadroneggiavano, lasciando qualche spazio a realtà minori per le quali l’approdo a Sanremo costituiva un’imperitura nota di merito e di vanto. Ma in quegli anni non esisteva ancora uno stacco così profondo e definitvo tra i pochissimi giganti discografici internazionali ed una miriade di piccole etichette, come oggi avviene. Ed i meccanismi di promozione e lancio di un artista, certamente onerosi anche in quell’epoca, non comportavano i costi attuali né si avventuravano sugli impervi percorsi mediatici ed informatici di oggi. Ma un dato è certo: la musica indipendente continua a rimanere fuori dall’Ariston perché, anche quando un artista di quell’area approda sul palcoscenico sanremese, per farlo deve cambiare “vestito”, abbandonando gli abiti non griffati delle piccole etichette indipendenti per indossare quelli ultrafirmati delle major. Un modo come un altro per circoscrivere la potenziale, seppur minima, concorrenza, spesso non riconoscendo i meriti a chi li ha (produttori, piccoli discografici, autori) circoscrivendo l’enorme mondo della discografia indipendente in una sorta di girone infernale riservato ai reietti per uscire dal quale l’unico approdo possibile sono le major. Ovviamente non è sempre così. Ma chi detiene il potere ha tutto l’interesse a farlo credere.

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