Prosegue la passerella di interventi nell’ambito del dibattito che ha per tema “La musica è finita? Quae futuro per la musica?” promosso dalla nostra rivista che nel prossimo mese di maggio raccoglierà i contributi in un libro che verrà presentato in occasione della prossima edizione di Biella Festival, nell’ambito di un apposito convegno. Ad intervenire questa volta è Antonell0 Cresti, saggista, critico musicale e compositore toscano.
“Un giorno l’ultimo ritratto di Rembrandt e l’ultimo rigo musicale di Mozart avranno smesso di esistere – anche se probabilmente rimarranno una tela colorata e un foglio di appunti – perché l’ultimo occhio e l’ultimo orecchio aperti al loro messaggio saranno spariti.” (Oswald Spengler)
Quando sei il co-autore di un libro intitolato “La Scomparsa della Musica”, è inevitabile trovarsi nella spiacevole situazione di essere visto come una sorta di messaggero di sciagura e per questo, non di rado, capita che io venga ripreso da musicisti che – sentendosi chiamati in causa – rivendicano il fatto che la musica, la “buona musica”, non è affatto scomparsa oggi e che se si ha la pazienza di ricercare, ancora oggi si possono fare scoperte gratificanti. Benchè spesso queste persone tendano a svolgere ragionamenti autoreferenziali, sopravvalutando il proprio reale talento, la realtà che portano alla attenzione è innegabile: avremo probabilmente vissuto epoche creativamente migliori, come altre peggiori, ma è indubbio che la musica prosegue ancora oggi il suo percorso. Ciò che però è altrettanto evidente è che anche la “buona musica” di cui sopra oggi riveste un ruolo infinitamente meno incisivo rispetto a ciò che accadeva nei decenni passati: difficilmente crea identificazione con l’ascoltatore, rarissimamente contribuisce a creare un mondo valoriale, non è più associata a mode, movimenti culturali, convinzioni sociopolitiche o spirituali. In breve c’è se la si conosce, ma rimane sovrastruttura incapace di agire sulla struttura, come di plasmare l’individuo in qualche maniera. La motivazione essenziale di questa “assenza nella presenza” sta nel cortocircuito che si è creato con l’ascoltatore, non più aperto al messaggio che gli arriva… Vi sono ragioni sociologiche, culturali molto profonde, dall’uso della tecnologia alla crisi del mondo giovanile, per spiegare questo stato delle cose ed occorrerebbe uno spazio molto maggiore per affrontare questo discorso (io stesso oltre al già menzionato “La Scomparsa della Musica”, me ne occuperò in un prossimo saggio intitolato “La Musica e i suoi Nemici”), dunque proviamo a dare uno spiraglio di speranza vedendo la cosa dalla prospettiva di musicisti ed autori. Da questa visuale ciò che emerge è una crescente incapacità di comprendere cosa significhi fare musica e conseguentemente ad avere consapevolezza del proprio ruolo. Il mondo della discografia odierno – che si parli di mainstream o di underground – è popolato di personaggi che hanno acquisito una modalità ruffiana ed impiegatizia, che, in ogni caso sono i primi ad essere convinti di produrre merce. Che si tratti della canzoncina plastificata estiva o di qualcosa di diverso è scomparsa la volontà di scrivere davvero, partendo dalla musica, una nuova pagina di storia della nostra società e dell’uomo. Direbbe Giorgio Gaber che “manca anche l’intenzione del volo”… Uscire da questo cul de sac non significa immaginarsi tutti come geni incompresi, ma realizzare che abbiamo un veicolo comunicativo che, ancora oggi, nonostante le oggettive difficoltà del caso, è in grado di influenzare il pensiero, il costume, e dunque le nostre vite a livello collettivo ed individuale. Provare a crederci significherebbe dal mio punto di vista non solo proporre ancora oggi “buona musica”, ma far si che essa stessa possa farci battere il cuore con la stessa intensità del passato.