Abbiamo rivolto cinque domande a Mario Bonanno, giornalista e saggista, autore del ibro “La musica e finita” (Stampa Alternativa), attento osservatore delle fenomenologia musicale e del rapporto tra canzoni e società, soprattutto in ambito cantautorale.
Bonanno, “La musica è finita” è il titolo del suo recente libro. Ma è anche il titolo di una famosissima canzone di Nisa, Califano e Bindi, portata al successo da Ornella Vanoni nel remotissimo 1967. Si è rifatto a quel brano semplicemente per recuperarne il titolo, oppure ha voluto cogliere anche il percorso temporale che dalla vitalità musicale di quegli anni ci ha condotti alla povertà di quelli che stiamo vivendo?
Credo che nella scelta del titolo abbiano concorso, più o meno razionalmente, entrambi gli aspetti. Nel senso che “La musica è finita” va inteso come un titolo provocatorio, nel senso che sfrutta la portata meta-musicale del capolavoro firmato da Nisa, Califano e Bindi, rimandando ai capisaldi di una stagione discografica (ma non solo) qualitativamente irrepetibile, di un “fenomeno” ormai da storicizzare. Oggi come oggi ad essere finita è infatti, soprattutto, la musica dei cantautori. Cioè la musica, o meglio la canzone, di contenuto. La canzone con dentro il “messaggio”. La canzone d’autore contigua alla letteratura e alla poesia. La canzone che ha rivoluzionato i canoni – semantici e contenutistici – della così detta musica leggera italiana, transitata dall’edulcorazione sterile del bel canto alla radiografia fedele della realtà. Ad essere finita è la canzone nata a ridosso degli anni Settanta, scritta assecondando una reale esigenza comunicativa. Oggi si fa un gran parlare di cantautori, ma il termine è svilito e inflazionato. Il cantautorato, nell’accezione più rigorosa del termine, non ha trovato eredi ai Vecchioni, ai Guccini, ai Lolli, ai Fossati, ai De Andrè. Nel migliore dei casi solo deboli scimmiottature. Attraverso saggi e interviste, il mio libro si intrattiene e si ferma, non a caso, a questi padri della patria cantautorale.
Califano e Bindi, autori di “La musica è finita” furono le avanguardie della prima generazione di cantautori (con gli Endrigo, i Paoli i Tenco e tanti altri), seguiti poi da tutti coloro che approdarono al successo a partire dalla prima metà degli anni Settanta. Ma, secondo lei, cos’era la musica italiana prima dell’avvento della canzone d’autore e cosa e diventata via via dopo. Ma, soprattutto, oggi ha ancora un senso parlare di “canzone d’autore” con lo spirito che ne decretò il successo?
La musica italiana vanta un’annosa tradizione melodica. Con ciò che di bello ma anche di stereotipato e di leggero ne consegue. Artisti come quelli che lei cita (metterei dentro anche il primissimo De Andrè), verso la fine degli anni Sessanta, rappresentarono una vera e propria rivoluzione copernicana. Soprattutto sotto l’aspetto dei contenuti. Assecondando la tradizione del “bel canto”, prima di loro la canzone italiana era qualcosa di edulcorato, finto-rassicurante, pedagogico. Disancorata dal piano della realtà, per via di mamme & mogli in odor di santità, figli e mariti esemplari, amori romantici e struggenti, valori di patria e famiglia che trovavano riscontro solo in un deamicisianesimo d’accatto, buono per assopire le coscienze, veicolando un’immagine dell’Italia e degli italiani implausibile, quasi sublimata. Erano i tempi delle canzoni melliflue di Nilla Pizzi, Beniamino Gigli, Claudio Villa, e perché no, qualche tempo dopo – in parallelo col proliferare della canzone più impegnata – anche di Massimo Ranieri e Gianni Morandi. Roba inascoltabile dal punto di vista letterario.
Tra le mille ragioni che si potrebbero individuare, perchè negli ultimi trent’anni la manifestazione musicale più popolare d’Italia, il festival di Sanremo, non ha più saputo essere veramente rappresentativa dei gusti musicali del nostro Paese e della loro evoluzione?
Ritengo la canzone – così come del resto il cinema e la letteratura – un’espressione artistica intrinsecamente legata all’antropologia sociale. Dagli anni Settanta a oggi, cioè dai tempi dei cantautori agli pseudo-rapper attuali, la società italiana è abissalmente cambiata, non solo per ciò che riguarda i collanti ideologici (che oggi non esistono più) ma anche per quanto riguarda le aspettative riferite alla fruizione musicale. L’Italia tipica di Sanremo è quella speranzosa, appena scampata ai lutti e alle bombe della seconda guerra mondiale. Un’Italia che ambiva, giocoforza, alla spensieratezza, a una forma-canzone che sapesse farla sognare, soprattutto secondo le molteplici declinazioni dell’amore. Altro non si chiedeva che brani come “Edera”, “Granada”, quindi “Piove (Ciao ciao bambina)”, e così via. Intorno alla metà degli anni Sessanta, come ho già detto, si è assistito alla prima svolta, con l’avvento dei proto-cantautori (se non cantautori verti e propri), a partire dal tenchiano “Li vidi tornare (Ciao amore ciao)” un tragico, vero e proprio schiaffo al benpensantismo sanremese. Oggi il Festival è un anacronismo. E’ un anacronismo per chi è ancorato ai brani dei cantautori (peraltro da sempre refrattari a partecipare al Festival) ma anche per i più disponibili ad aggiornarsi alle nuove proposte musicali. E’ come se al Festival il tempo si fosse, in qualche modo, cristallizzato. Ancorato a un pop melodico che non trova presa nei gusti delle vecchie e delle giovani generazioni più acculturate. Cantanti come Gigi D’Alessio, Laura Pausini o gli imbarazzantissimi Il Volo si richiamano a topoi sanremesi superati dal tempo e dalla storia, canoni espressivi che non esistono più. Oggi Sanremo andrebbe guardata come una kermesse televisiva come un’altra. Una stanca ripetizione di se stessa, una pantomima, un fenomeno televisivo, nemmeno più di costume.
La crisi discografica, che pare irreversibile, è solo l’effetto delle nuove tecnologie? Ha ancora senso parlare di “indie” e “major” come di due mondi separati e distanti?
Inutile coltivare false illusioni: la crisi discografica è irreversibile. A mio avviso da addebitare solo in minima parte all’effetto delle tecnologie. E’ successo ai discografici quello che è successo alla stragrande maggioranza dei cantanti. Si sono trasformati. Si sono omologati al piattume di tendenza. Sono diventati pigri, miopi, pavidi, per non dire di peggio. Io non dico provare a lanciare, al di fuori degli orribili circuiti dei talent-show, qualche talento inespresso (ne esisteranno pure da qualche parte. O no?) ma, per esempio, darsi da fare con le ristampe di dischi imperdibili quanto introvabili, se non attraverso pessime versioni raccattate su internet. Gli archivi della EMI, della Ricordi, della RCA, per rifarmi a qualche etichetta storica, abbondano di master originali lasciati ad ammuffire. Si va avanti a compilation, ad antologie, quando invece occorrerebbe rischiare su interi dischi, lp basilari nella storia del cantautorato italiano, maggiore o minore. Questo per quanto riguarda le major. Il mondo indie lo conosco molto poco perché distante, per lo più, dalla weltanshauung cantautorale. A orecchio temo non nasconda troppi geni incompresi, per cui i danni dovuti a un’eventuale miopia di programmazione editoriale, credo siano relativi.
I giovani sanno ancora “ascoltare” la musica?
Provengo da una generazione venuta su col mito del lp e dell’hi-fi (l’impianto stereo). Per noi giovani di allora i long playing erano dei feticci, a partire dalle copertine – alcune delle quali bellissime, apribili, illustrate – e dal rito trepido dello spacchettamento. Posso dire di avere mandato a memoria interi lp, parole e musica, dall’inizio alla fine. E posso dire anche di non essere stato il solo. Ascoltare un disco, allora, significava davvero ascoltare un disco. Costituiva un tempo sospeso, interamente dedicato alle canzoni e agli stati d’animo che riuscivano a evocare. Tra download più o meno autorizzati, i-pod, cellulari e quant’altro temo che anche in questo caso le cose siano drasticamente cambiate, e non certo in meglio. La domanda che, ritengo, gravi sulla coscienza di ogni genitore convinto che la musica possa rappresentare un aspetto importante della formazione, è questa: cosa e come ascoltano la musica oggi i nostri ragazzi? A parte i contenuti effimeri della maggior parte dei brani temo si sia perduto proprio il senso autentico dell’ascolto. Non voglio soffermarmi più di tanto sullo spessore delle canzoni (si commenta abbastanza da solo), ma limitarmi a riflettere sul mezzo con cui queste arrivano alle orecchie dei neo-ascoltatori. In altre parole, ritengo che una fedeltà acustica minimamente accettabile non passi certo dai micro-altoparlanti di uno smart-phone o dalle cuffiette portatili attraverso cui si origliano oggi gli mp3. Che non la si assuma come una sentenza, ma temo che il processo di involuzione dell’ascolto rappresenti lo specchio dei tempi, e sia inarrestabile. Per riandare al titolo del mio libro, “La musica è finita” e con lei sono finite anche le stagioni sociali – irripetibili – che avevano capito che canzone poteva essere sinonimo di cosa seria.