Il titolo del loro debut album è già di per sé un manifesto ideologico, oltre che un’affermazione coraggiosa e colorita: “Milano posto di merda”. Loro sono i Giallorenzo e Milano, loro malgrado, è la città che ha ispirato queste undici tracce, ciascuna delle quali vorrebbe rappresentare la storia di un matto di qulla metropoli. Il titolo del cd si rifà ad una delle innumerevoli scritte che compaiono sui muri della città (quindi, se i Giallorenzo hanno qualche colpa di lesa maestà, hanno però anche l’attenuante di chi ha mutuato qualcosa di preesistente). Pietro Raimondi è l’autore di tutti i brani, oltre che voce (molto flebile) e chitarra della band.
Ma veniamo ai brani. S’inizia con “118”, poco più che sussurrato (come tutte le altre canzoni), tanto che entra in conflitto quasi subito con quella che dovrebbe essere la cornice musicale, che in realtà è sovrastante; piacevole la linea melodica. Sensazioni confermate ascoltando “Rasta che fa le foto”, che è un discreto pop un po’meno fruibile del brano che lo ha preceduto. “Condizioni meteo critiche” è più intrigante nonostante, anche qui, un arrangiamento sopra le righe. Piacevole e delicata invece “Esterno notte” per sola voce e chitarra acustica e meno di due minuti di ascolto (la brevità dei brani è una delle caratteristiche di questo album in cui le undici tracce sono quasi sempre come dei microfilm di situazioni o emozioni, il che alla fine renderà più accettabile l’insieme). “Festa” è una canzoncina carina, ma quella successiva, “Krypton”, comincia a generare la sensazione di stare aacoltando canzoni se non proprio tutte uguali di certo molto simili. E si tocca il fondo con “Kevin ragazzo superdotato” che mette insieme un testo non pervenuto causa arrangiamento fragoroso e confuso ed una linea melodica molto incerta. “Il metodo Peridani” è un altro brano al di sotto dei due minuti che scivola via lasciandoci con “Esselunga stabbing”, una cantilena tutto sommato piacevole nella sua estrema semplicità. Come semplice è “Bonti” ove a fare la differenza è soltanto una maggiore pienezza musicale, prima di finire con “Tutte le cose” che apre con un bell’arpeggio di chitarra acustica e poche frasi sussurate per poi spegnersi gradevolmente. Che dire di questo progetto? Tra le note positive, la sua originalità nelle intenzioni e nella realizzazione, il fatto che comunque, salvo un paio di eccezioni, non si può parlare di brutte canzoni, poi che i brani scivolano via senza lasciare il tempo di annoiarsi né quello di giudicarli troppo a lungo. Tra le negatività, il minimalismo complessivo dell’opera: la voce è ai minimi sindacali, ma lo sono anche gli arrangiamenti, non vi è un solo brano che riesca a lasciare una traccia definibile, la semplicità rischia troppo spesso di andare a braccetto con la pochezza. Con tutto ciò, una sufficienza risicata ed un poco generosa ci può stare.