TOTA CON UN EP CI RACCONTA LA SUA SINDROME

“La sindrome del giorno dopo” è il titolo del nuovo Ep di Tota (al secolo Tommaso Tota, cantautore di origine umbra, ma milanese di adozione, dopo essere transitato da Bologna) da qualche tempo in circuitazione. Un progetto a tratti introspettivo, spesso cantato (e si ipotizza scritto) di getto, senza troppi fronzoli, con qualche immancabile limite.

La prima delle cinque tracce contenute nell’Ep si intitola “Gli anni che ho”, l’ascolto rivela una voce flebile che talvolta viene soverchiata da ondate di musica (come avremo modo di verificare anche in altre parti del lavoro), non male la linea melodica, che non risolve però lo sgradevole impasto tra strumenti e voce. “Saggio breve” appare assai più interessante, soprattutto per quel fraseggio rapido ma intenso (che troveremo anche altrove) che dà respiro al testo prima, che un ritornello un po’ ripetitivo ci accompagni verso il terzo brano. Si tratta di “Fidati che”, canzone con una linea melodica meno fruibile e che vede nuovamente in conflitto voce (troppo tirata e in affanno) e suoni. “Soffio” ci mette in sintonia immediata con una buonissima sezione ritmica ed una chitarra forse un po’ insistente, ma ancora manca la pulizia dei suoni e della voce, approdando poi all’ultima traccia, “Almeno” che ci riporta alle considerazioni espresse ascoltando “Saggio breve” laddove, come qui, il fraseggio ravvicinato che sfiora il rap risulta più intensamente narrativo di quanto non avvenga con le altre canzoni e, lavorandoci ancora un poco, potrebbe essere la cifra artistica più personale di Tota. In conclusione, “La sindrome del giorno dopo” non raggiunge la sufficienza e non perché i cinque brani siano da buttare (almeno due sono anzi interessanti), ma perché chi fa il cantautore dovrebbe avere cura dei propri testi, con i quali tende a raccontare o a raccontarsi e quindi non dovrebbe mai accettare che vengano soverchiati dalla dimensione strumentale che li accompagna. Anche quando la voce, come in questo caso, è quella che è.

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