Curiosando tra gli scaffali dei dischi di un supermercato a tre settimane dalla conclusione del Festival di Sanremo, si ha l’esatta percezione di quanto il cosiddetto “supporto fisico” rappresenti ormai un sovrappiù per molti artisti e molte case discografiche. Certo, forse nei rari negozi di musica ancora esistenti, la scelta sarebbe un po’ più ampia, si troverebbero prodotti meno commerciali, quelli di artisti (anche sanremesi) che di dischi ne vendono qualche decina ad amici e parenti. Ma l’album, l’erede del vecchio 33 giri, quello ormai sopravvive solo più in dimensione digitale. Quando, una decina di anni or sono, iniziammo il cammino di questa rivista online, di “supporti fisici” ne arrivavano ancora parecchi ed ogni giorno. Ora, curiosamente, sono almeno decuplicati gli uffici stampa con i quali abbiamo rapporti di collaborazione pressochè quotidiani, ma si sono ridotti a poche unità settimanali i supporti fisici che finiscono nella nostra buca delle lettere. In compenso, si sono moltiplicati in misura esponenziale i singoli e gli album che per essere ascoltati necessitano dei link di Spotify o di Youtube o di entrambi. La musica (so di dire una banalità) ha subìto un’evoluzione e non solo nella tipologia dei brani che scandiscono i nostri ascolti di ogni giorno. L’ha subìta anche (e questa invece non è una banalità, se ci pensate bene) nel modo in cui viene presentata. Per esempio, senza i supporti fisici, non vi sono più i testi delle canzoni che rendono più completo il prodotto. E in tempi come questi, in cui non è raro che accada di cercare di ascoltare le parole di brani soverchiati dalla musica, non avere la possibilità di percepire nella sua interezza un testo, spesso significa non comprendere il senso della canzone. Poi c’è anche chi, è vero, utilizza testi scritti con il tubolario, semplicemente perché ci vuole una voce che dica qualcosa in funzione della musica. Ma qui, entriamo in una dimensione diversa, quella che via via ha disabituato tanta parte delle nuove generazioni all’ascolto vero di una canzone. Tra il sentire e l’ascoltare, la differenza è enorme, ma molti paiono non percepirla più. Il non disporre poi di un “package”, di un involucro, di una confezione, insomma di un qualcosa ove sia contenuto il cd, significa anche non avere a portata di mano e di occhi altre informazioni importanti: chi sono gli autori del brano o dei brani che stiamo ascoltando? Chi li ha arrangiati? In che anno è uscito l’album? Per quale etichetta discografica e qual è il logo di questa etichetta? Certo, ora i più potranno dirmi…e chissenefrega del logo, dell’etichetta, dell’anno e delle copertine, queste informazioni, se proprio uno le vuole cercare, in buona parte le può trovare su internet. Vero. Ma tutte queste informazioni fanno parte della storia di un progetto musicale. E un progetto musicale, soprattutto se abbiamo tra le mani un buon progetto, fa parte della storia della musica, della storia della canzone, di quella parte di storia esistenziale nella quale, presto o tardi, tutti finiamo per riconoscerci, almeno una volta, sentendo una canzone che ci riporta a un’epoca, a dei volti, a delle circostanze. Il trovarsi tra le mani anche solo un ritaglio minuto di quella storia significa vedere, toccare, memorizzare anche senza rendercene conto. Il non avere nulla fuorchè una sbarra che scorre sul monitor di Spotify, significa non disporre di altri elementi, al di là di ciò che sentiamo e non sempre ascoltiamo. Dunque, rinunciamo ai vecchi “padelloni” e ai cd, affidiamoci a Spotify e/o a Youtube, ma facciomolo con la consapevolezza di ciò a cui rinunciamo. E gli uffici stampa e le case discografiche e gli artisti sappiano che la richiesta di un supporto fisico, non è il capriccio di un critico un po’ rincoglionito, ma è la ricerca della testimonianza di un qualcosa che possa rimanere nel tempo un po’ più dei tre minuti che dedichiamo a una canzone.
Giorgio Pezzana