“Il mestiere di vivere” è il titolo del nuovissimo album di Ernesto Bassignano, un personaggio che la storia della canzone italiana l’ha attraversata e vissuta con intensità, legando il suo nome ad un’epoca irripetibile quale fu quella dei cantautori, che lo vide alla fine degli anni ’60 tra i protagonisti del Folk Studio di Roma, un vera e propria fucina di talenti con due dei quali, Antonello Venditti e Francesco De Gregori, ebbe modo di lavorare sin dall’inizio.
Conduttore radiofonico, giornalista, Bassignano è stato operatore culturale nel settore stampa e propaganda del vecchio PCI di Pajetta e Berlinguer. Il nuovo disco è uno sguardo al passato in cui non ci si ritrova solo nostalgia, ma anche il neppure troppo nascosto interrogativo (“Gli occhi di mio figlio”) su quanto i nuovi giovani potranno mai vivere momenti di pari intensità. E’ un disco di nove tracce in ciascuna delle quali il testo ha una sua ragion d’essere in ogni parole scritta e cantata, un progetto per la realizzazione del quale Bassignano ha potuto avvalersi della collaborazione di musicisti che hanno saputo interpretare con maestria ogni suo respiro. Lo abbiamo incontrato poco dopo la presentazione di questo suo lavoro all’Auditorium Parco della Musics di Roma gremito.
Che cosa c’è in questo nuovo album e che cosa vuole trasmettere?
E’ un modo di guardarsi indietro pensando al futuro. Una dimensione cantautorale che, forse come un tempo, vorrebbe smuovere certe attenzioni, come avviene quando in contesti diversi mi ritrovo a raccontare vent’anni di cultura alternativa. Certo, alcuni grossi festival non mi vogliono, al “Tenco” non mi chiamano dagli anni Settanta ed a Musicultura di Recanati non ne vogliono più sapere di me da quando dissi loro che stavano perdendo lo smalto delle migliori edizioni per rincorrere il Festival di Sanremo. Sono comunque contento di questo lavoro che ho condiviso con musicisti richiestissimi e molto preparati.
Non possiamo esimerci dal gettare uno sguardo ad un grande periodo della sua vita artistica che fu quello del Folk Studio…
Va detto che è stata per me e per molti altri una vera fortuna esserci in quegli anni ed una simile esperienza non poteva che nascere negli anni ’60 a Trastevere. Nacque tutto per caso, partendo dal jazz e dal passaggio di grossi protagonisti di quel genere, poi si aggiunsero altri artisti e ci ritrovammo io, Venditti, De Gregori e Lo Cascio immersi in quel posto che proprio perché spontaneamente alternativo ogni sera vedeva transitare il meglio degli artisti in un luogo da 80 posti a sedere, sempre stracolmo di gente con il desiderio di proporsi e di confrontarsi.
E poi c’erano le feste de l’Unità, ne ha un buon ricordo?
Ne ho vissute tante, tantissime, il mio capo all’epoca era Enrico Berlinguer, dialogavo fittamente anche con Pajetta. Da lì passarono tutti i cantautori italiani ed io ero immerso in quel clima di canzoni e politica, in quelle kermesse di cultura che il Partito comunista più di ogni altro sapeva far vivere. Ricordo, tra le tante memorie, che mi portavo Rino Gaetano per 200mila lire…
Ma i giovani oggi, che cosa sanno di quell’epoca che dal punto di vista musicale e sociale rappresentò un periodo particolarmente intenso per il nostro Paese?
Non sanno nulla. Oggi è l’apoteosi del rap e del trap dopo le tette ed i culi degli anni ’80. Tutto quanto di buono aveva la Rai, è stato lasciato cadere negli anni oscuri del berlusconismo. E la Rai ha colpe grosse per non avere tentato di salvaguardare quanto, come servizio pubblico, avrebbe avuto il dovere di tutelare. E ci metto naturalmente la canzone d’autore, anch se personalmente, dopo Ruggeri e Caputo, ci posso aggiungere ancora Silvestri e Samuele Bersani, poi il nulla.
Ha appena fatto un disco ma…che vogliamo dire della crisi discografica ormai irreversibile?
Oggi il supporto discografico non ha più un impatto sul mercato, ma nonostante ciò sono ancora tantissimi a tentarle tutte per realizzare il loro cd, penso per esempio a soluzioni come il craudfounding per finanziare queste operazioni. Per fare un album ci vogliono 10mila euro, personalmente è la secondo volta che autofinanzio il mio lavoro, ma il mercato discografico è morto e non solo quello discografico, ormai il mondo della musica è fatto da pulciari che si rapportano con altri pulciari. Si dovrebbero fare serate, ma è sempre più difficile e chi ha una propria professionalità ed una storia artistica alle spalle non può “svendersi” a certe condizioni. Meglio non fare nulla.
A meno che non ci sia di mezzo la tv…
Si, indubbiamente la televisione gioca un ruolo importante anche per quelle meteore che sono destinate alla sparizione, ma che grazie alla tv per qualche mese fanno serate a 8mila euro a botta. Non aiuta neppure più la radiofonia, ingessata e legata ai principi del pop e del divertimento. Ricordo che quando conducevo “Ho perso il trend” su RadioUno Rai, per undici anni ho passato ciò che volevo, anche i poeti russi oltre ai cantautori emergenti. Abbiamo tenuto duro sino al 2011. Eppure qualcosa di buono tra gli artisti emergenti c’è ancora, penso a Marco Greco, un ragazzo che ha scritto cose bellissime, ha vinto il “De Andrè” ed a Recanati. Ma manca sempre il momento del decollo.
Qualche spiraglio in una fase così depressa?
Qualche spiraglio, se c’è, può venire dalle piccole radio. Penso per esempio a Radio Elettrica. A Roma ha 70mila ascoltatori al giorno. Piccole radio che sappiano ancora anteporre la qualità a qualsiasi altra dimensione, ricreando l’humus che potrebbe consentire un nuovo rinnovamento, sia pure in un momento difficile come questo in cui anche la dimensione web ci riempie di nulla.