Sinceramente non comprendo il senso della classifica stilata dal Mei riguardante i primi 50 artisti indipendenti italiani, a partire dagli anni Sessanta. Stiamo parlando di epoche talmente diverse, tanto da impedire paragoni attendibili.
E’ pur vero che Adriano Celentano, nel remotissimo 1962, fondò il suo Clan, prima vera esperienza “indipendente” a livello nazionale. Ma è altrettanto vero che in quegli anni il mercato discografico non era ancora monopolizzato dalle major. Ed è altrettanto vero che in quegli anni, termini come “major”, “indie” ed assimilabili non appartenevano al dizionario della musica, nè italiana nè internazionale. Non entro ovviamente nel merito della classifica che, come tutte queste graduatorie, risente di emotività, legittimi gusti soggettivi, conoscenze più o meno dirette di artisti, produttori, manager e via simpatizzando. Tengo però a sottolineare che probabilmente avrebbe avuto più senso ricostruire il percorso della musica indipendente tracciandone la storia, sino ad individuare piccole realtà, come la “Splash”, etichetta discografica fondata da Peppino di Capri nel 1970 e suo segno distintivo sino al 1983; oppure la “Mi.Mo”, fondata poco prima da Migliacci e Morandi come edizione e come etichetta discografica; o anche la “Little Records”, fondata nel 1969 da Little Tony e rimasta attiva sino al 1973. E spiegare le ragioni di queste scelte di indipendenza, che in quegli anni, interessarono molti artisti noti, desiderosi principalmente di gestire i propri percorsi musicali, senza sottostare ai tempi ed alle scelte imposte dalle case discografiche. Imposizioni che vennero evidenziate in modo clamoroso con l’avvento dei gruppi, che all’epoca si chiamavano complessi, oggi band. Formazioni che incidevano e portavano nelle hit nazionali brani con determinate caratteristiche commerciali, spesso cover, per poi rivelare la loro vera identità nei dancing, ove i brani radiofonici e televisivi venivano riproposti per ragioni contrattuali, dando poi spazio ad espressioni musicali spesso molto diverse e lontane da quelle alle quali dovevano la loro notorietà. A prevalere era dunque l’aspetto ideologico-artistico mentre in tempi più vicini a quelli attuali, quando ormai le major si erano “divorate” pressochè tutte le circa 350 case discografiche che negli anni Sessanta popolavano il mondo musicale italiano, a farsi largo era ed è tuttora l’esigenza di dare vita ad una propria espressione con la consapevolezza che l’industria discografica, ridotta a pochissime etichette internazionali, ha progressivamente ristretto gli spazi dei propri accessi, lavorando principalmente “sul venduto”, come si direbbe in ambito immobiliare. In altri termini, le etichette indipendenti fanno il “lavoro sporco” che è quello del tentativo di lanciare nuovi artisti, arrabattarsi per mettere insieme le risorse per realizzare un cd e promuoverlo, cercare di creare vetrine sempre nuove per band, cantanti ed autori passando attraverso festival e rassegne. Poi, quando dal polverone sollevato da tutto questo agitarsi emerge un volto promettente, che piace ai giovani, vendicchia qualche disco, “buca” il video e magari è disposto ad accettare anche qualche compromesso, ecco che arriva la “major” di turno che lo arruola, lo pettina, lo rimette a nuovo e lo manda a Sanremo, appropriandosi anche di meriti che non ha. Un tempo, le case discografiche, non ancora “major”, si avvalevano della consulenza dei “talent scout”, scopritori di talenti, che masticavano ore ed ore di musica nei locali di tutt’Italia, individuando, di tanto in tanto, personaggi da suggerire alle etichette discografiche di riferimento. Quelli sarebbero diventati, molto spesso, i futuri “big”. Il ruolo delle etichette “indie” oggi, è quello di fare, più o meno consapevolmente, il lavoro dei “talent scout” di alcuni decenni or sono, senza però avere accesso nè al riconoscimento di alcun merito, nè ancor meno ad alcun tipo di remunerazione. Ecco perchè la classifica del Mei, strombazzata anche al recente Salone del Libro di Torino, di fatto cerca di coniugare l’inconiugabile, per fare a suo modo mercato. E se il mondo della canzone non fosse ammantato di tanta, troppa superficialità, se ne sarebbero accorti in molti. Le magliarate hanno spesso effetti pirotecnici, ma la razionalità dello studio e la comparazione della ricerca, sono ben altra cosa.