Prosegue con la band abruzzese DogsLoveCompany il percorso di interviste agli artisti emergenti più interessante del panorama nazionale.
Il nome del vostro gruppo è senza dubbio originale. Da dove arriva quest’idea?
DogsLoveCompany è un nome che ci accompagna da ormai più di dieci anni. Difatti, abbiamo con esso un rapporto di odio-amore, dovuto anche ai cambiamenti che abbiamo avuto in tutti questi anni. Personali ed artistici. Comunque, nasce dal ricordo delle etichette dei vinili di una volta (Victor Records), dove un cane sembra cercare compagnia nella musica suonata da un grammofono. In quell’immagine si riassume un po’ tutto ciò che ci caratterizza… L’amore per i dischi di vinile, la fuga nella musica, come unica “salvezza” nella solitudine dei paesini di provincia come il nostro e la voglia di calore umano, che come nei cani, è fortissimo.
Qual è stata la scintilla iniziale che ha dato vita alla vostra band? A chi o a cosa vi ispirate nella vostra musica?
Il nocciolo della band, siamo io e Danilo. Poi attorno a noi ruotano amici musicisti – e non – che ci danno supporto ed aiuto, nel momento del bisogno; anche se ora abbiamo una formazione in quartetto piuttosto stabile. Ed è fondamentalmente la nostra amicizia (mia e di Danilo intendo) che ha fatto nascere tutto. Eravamo due adolescenti, confusi e in lotta con questa terra che ci imprigionava e ci sembrava troppo piccola. Gli unici alleati contro questa “bruttezza” erano i dischi, i libri e le bottiglie… Poi lentamente, dall’ascolto passivo, siamo passati a cercare di copiarla ed imitarla, con le chitarre da due soldi che avevamo allora. Inizialmente, come si addice a dei sedicenni, ascoltavamo la musica degli anni novanta: la scena di Seattle tutta. Poi, come in un percorso all’indietro verso la sorgente, ci siamo arrampicati nel rock “classico”. E poi, finalmente, abbiamo trovato la matrice, la radice di tutto. Il blues ed il jazz. Con questa consapevolezza e con questo nuovo amore, abbiamo poi cercato di trovare, nella musica della nostra nazione, chi più aveva subìto l’influenza di questa radice. E ci siam trovati ad ascoltare artisti come Buscaglione, Natalino Otto, Nicola Arigliano, stupiti da quanto fossero “avanti”, rispetto alla musica italiana di oggi. A quel punto, perso tutto il rifiuto adolescenziale per la musica del nostro Paese, abbiamo avuto la possibilità di ascoltare con nuovi intenti tutti i grandi cantautori italiani (Conte, Battisti, Capossela, Lauzi, Tenco) e capire come fossero stati in grado di fondere le influenze d’oltre oceano, con la musica popolare italiana.
Ascoltando alcuni dei vostri brani, abbiamo notato che “Piccola serenata” si stacca stilisticamente dalla vostra produzione, andando a cercare suggestioni da milonga, che ricordano un po’ le ambientazioni care a Paolo Conte, per esempio. Si tratta di un esperimento estemporaneo o è un percorso che intendete proseguire?
Diciamo che la scelta del “tango beguine”(così ama definirlo il nostro fisarmonicista… noi lo lasciamo dire, perché non sapremmo che rispondere) è stata dettata, più che da influenze di altri autori (che pure ci sono), da una necessità stilistica e poetica. “Piccola Serenata” è una canzone d’amore. D’amore perduto. E, intendendo la musica come una sceneggiatura per uno spettacolo, dove le parole sono il protagonista, ci è venuto piuttosto naturale scegliere uno stile che richiamasse immediatamente i suoni ed i colori dei tanghi disperati d’Argentina, in modo che l’ascoltatore fosse subito in contatto con la storia che cercavamo di narrare. Ci piace giocare con tutta la musica che abbiamo ascoltato e ci piace utilizzarla come uno strumento, un attrezzo di un artigiano, per costruire piccole canzoni; che dicono ciò che abbiamo da dire, volta per volta. Perché in fondo, in questo mondo di artisti e costruttori di emozioni, a noi piace considerarci degli artigiani. E costruttori di canzoni.
Quali sono le principali problematiche che voi riscontrate, sia a livello del vostro ambito territoriale, sia a livello nazionale, nel proporre e portare avanti i vostri progetti musicali?
L’elenco delle lamentele è davvero lungo. Mentre l’elenco delle proposte è esiguo. Diciamo che la cosa di cui abbiamo più fame è l’attenzione. L’attenzione del pubblico, dei gestori, degli addetti ai lavori ed infine delle Istituzioni.E’ davvero difficile crearsi uno spazio in cui fare ascoltare ciò che si ha da dire. E questo riguarda qualsiasi ambito artistico. E’ una continua lotta. Contro cachet da fame, contro avventori dei locali disattenti, contro addetti ai lavori sempre più superficiali, contro Istituzioni completamente assenti, contro colleghi affamati e purtroppo pronti a tutto. La sensazione è sempre quella di essere per tutti più un peso, che non una risorsa. Il gestore, che sente il peso del “rischio” di far ascoltare musica che non sia quella che i clienti già ascoltano per tutto il giorno nelle radio (sature dei lamenti dei medesimi 4 autori); i clienti che – se non si lamentano perché non possono parlare e bivaccare ad alta voce – si lamentano di non poter ballare i soliti ritmi sulle solite melodie; produttori, agenzie e manager concentrati esclusivamente su ciò che il mercato richiede, nel tentativo di modellare prodotti pronti ad essere smerciati attraverso i pochissimi canali che ci sono, senza fatica ed investimenti… Più simili a spacciatori ed avvoltoi, che non a mentori o talent-scout. Per non parlare delle Istituzioni; comuni, giunte regionali, assessorati, assessori… dove le porte sono sempre sigillate, e si aprono solo dall’alto, quando le leve giuste ed i nomi giusti vengono pronunciati. In un clima del genere, gli artisti, non solo fanno la fame nel senso “pratico” del termine, ma fanno anche la fame artisticamente: una continua lotta di povero contro povero. Molte volte, mi chiedo, se qualcuno si ricorda perché e come si scrive una canzone; per l’impellenza di dire qualcosa. L’urgenza di dover tramutare qualcosa di intenso, in un messaggio; un messaggio che deve nascere, a prescindere da chi e come verrà ascoltato. La cosa più triste di tutto ciò, è che ci si abitua. Anche noi ci ritroviamo a cercare di capire i meccanismi ed a lottare con le stesse armi, nella smania di consegnare la nostra arte… Ma, per quanto si possa cercare di rimanere “integri”, vivere sempre in una situazione del genere, logora. E cambia.
Ora, forse, le cause che hanno creato questo clima sono molte. Ecco perché è davvero difficile fare delle proposte costruttive. Probabilmente, in questi anni bui, la cultura, l’educazione (musicale e non) sono elementi che sono stati completamente tralasciati. Ponendp le condizioni perché si creasse un ambiente arido, sterile; dove sopravvive solo chi a questo ambiente si sa adattare.
E come immaginate potrebbero essere risolte, o almeno attenuate queste problematiche?
Non saprei. Cercare di rieducare le nuove generazioni a considerare la musica, e l’attenzione per la musica, come una cosa quotidiana, nutritiva, irrinunciabile. E non un contorno. Forse anche il fatto che l’unico reale canale “di massa” in Italia sia, e sarà per lungo tempo, la televisione, dove le logiche che guidano le scelte sono lontanissime dalla meritocrazia e dal gusto. In qualche modo, sradicare e liberarsi quei 4/5 autori che scrivono per tutti e tutte, e non cercare di entrare nelle loro grazie. Ecco, forse questo, nel mondo della musica ma non solo, la mia generazione non ha capito: lottare. Non sento nessuno della mia età che gridi “mandiamoli in pensione i direttori artistici, gli addetti alla cultura” come gridava Battiato anni fa… per far capire a questi personaggi, che ormai il loro tempo è stato fatto… ma sento piuttosto “speriamo di piacere a Tizio o a Caio che ci può dare una mano”. In Italia, ai giovani, sembra normale che dinosauri ormai sbiaditi e soffocati dal peso del loro passato, siano ancora osannati come delle stelle, mentre in realtà dovrebbero essere considerati delle mummie. E’ nostro compito, proporre qualcosa di nuovo, metterli continuamente in discussione, proprio perché “giovani” e portatori del messaggio di un nuovo tempo. Con il rispetto per ciò che c’è stato prima e l’amore per la musica che ci ha fatto crescere, ed essere ciò che siamo, senza però essere servi e imitatori del passato.