Parliamo di festival. E di imbrogli

FESTIVAL PER EMERGENTI. MA PERCHE’ PAGARE?

Mi ritrovo in questi giorni a riflettere sui contenuti di una diatriba annosa, oggetto di confronti ed anche di liti in epoche più o meno lontane, oggi tornata fortemente di attualità, anche per gli effetti della crisi economica che pone interrogativi ed incertezze laddove, sino ad un paio di anni or sono, vi erano solo risposte consolidate e certezze quasi assolute. L’Italia pullula di concorsi. Di ogni tipo. In ambito musicale poi, ve ne sono per tutti i gusti e per tutti i talenti ( o presunti tali, sino a prova contraria). Ma perchè, quasi sempre, chi vi partecipa deve pagare le cosiddette “tasse di iscrizione” o “quote di partecipazione”? Perchè un artista emergente, con tutto il suo bagaglio di sogni, di speranze, di ansie e di inevitabili delusioni, dovrebbe pagare soltanto per farsi ascoltare?

 

QUESTIONE DI ORGANIZZAZIONE O DI PAGNOTTA?

Qualcuno degli organizzatori, in momenti e contesti diversi, mi ha detto (o scritto), che solo in questo modo è possibile fronteggiare le spese che derivano dall’organizzazione di una manifestazione ove gli artisti emergenti dovrebbero trovare uno spazio di ascolto. Non è così. Ci sono le istituzioni, le fondazioni, gli sponsor. C’è chi può dare di più, chi di meno, chi nulla. E questo non è un periodo dei più facili. Ma i festival ove sono previste “tasse” o “quote” per essere ascoltati non sono nati oggi. C’erano già decenni or sono,  ci sono sempre stati, anche quando la crisi non c’era. E sono sempre stati una jattura. Rispetto alle rassegne ove i balzelli non vengono richiesti, la differenza è sempre stata sostanzialmente una: dove si paga, chi organizza vive o tenta di cavarsi la pagnotta dando vita a quelle manifestazioni; dove non si paga, l’organizzatore svolge un’altra attività e non cerca di far quadrare i bilanci personali allestendo i festival. Tutto il resto non c’entra, perchè non esiste una sola rassegna musicale che non disponga almeno di uno sponsor o comunque di un sostentamento che consenta di poter contare su di una struttura e di un impianto di amplificazione. E qualora esistesse, meglio farebbe a chiudere i battenti poiché significherebbe che il progetto è nato in un luogo inadeguato. Però, tentare di tradurre in una fonte di guadagno la buona fede di chi si accosta ad un festival, pensando di poter essere giudicato per la sua cifra artistica e le proprie canzoni, dovrebbe essere un reato perseguibile. Perchè, un manager della musica può anche pensare di lucrare sul talento altrui, investendo però, su quel talento, risorse proprie.

 

SE NON C’E’ “RISCHIO D’IMPRESA” E’ …TRUFFA

Si chiama “rischio d’impresa”: credere in un “prodotto” e mettere in campo risorse per promuoverlo, con la speranza che il pubblico lo apprezzi e quindi, in qualche modo, lo acquisti. Consentendo così un ritorno economico a vantaggio di chi il talento ce l’ha, di chi lo ha scoperto e valorizzato e di chi per il lancio di quel ”prodotto” ha lavorato. Chi tenta di arrivare ad un utile senza passare attraverso quei percorsi, non è un manager, è un truffatore. E come tale va considerato. Ma c’è di peggio. C’è anche chi non solo chiede ai ragazzi di pagare il balzello, ma anche di portare il pubblico, oppure, se non vi sono balzelli così “diretti”, di vendere un certo numero di biglietti a parenti ed amici, garantendosi in tal modo l’incasso della serata e il “pienone” in platea. Attenzione, la platea gremita non è solo sinonimo d’incasso, ma anche lo specchietto per le allodole capace di convincere amministratori pubblici e sponsor che una certa manifestazione gode dei favori del pubblico e genera vive attenzioni (cosa questa che fa andare in brodo di giuggiole i politici in cerca di voti, che non si esimeranno dal fare la passerella finale all’atto delle premiazioni e degli applausi, spesso senza sapere neppur bene di cosa si tratti).

 

IL “PIENONE” PIACE, MA NESSUNO SI CHIEDE CHI STA IN PLATEA

Passerella, ma davanti a chi? Quando il pubblico in sala o in teatro è il risultato di una “forzata vendita”, cioè acquisito per ragioni di parentela, di amicizia, di appartenenza allo stesso ambiente, sia esso bar sport o circolo del bridge, è bene che si sappia che quello è pubblico “inutile”. Manichini chiamati a stare seduti e ad applaudire per fare colpo d’occhio, per ingannare i polli. A quel tipo di pubblico non interessa nulla della musica, delle canzoni, degli interpreti (a meno che in platea ci siamo i genitori o i nonni di qualcuno degli artisti). Quasi tutti non vedono l’ora che finisca e sperano che finisca presto. E soprattutto, che non accada più di perdere una serata in quel modo. Il pubblico che conta, quello vero, è fatto da quelle persone che spontaneamente varcano la soglia del teatro, arrivano puntuali perchè non vogliono perdere una nota, non conoscono quasi mai gli artisti che stanno sul palcoscenico, ma hanno il desiderio di ascoltarli, il piacere di farsi un’opinione su ogni brano e su come viene eseguito, il gusto di ripensarci dopo, a serata terminata, mentre stanno rincasando. Ma quel tipo di pubblico, quasi mai gremisce le platee. Con la stessa spontaneità è più facile che un altro tipo di pubblico gremisca le piste da ballo delle balere, ma questo è un altro discorso. Però, tradotto in termini più concreti, per chi organizza, la platea gremita significa semplicemente passare all’incasso nelle ragionerie degli assessorati, senza ricevere rimbrotti (quegli uffici vorrebbero sempre il tutto esaurito) e presso le aziende private, appagate dal ritorno d’immagine. Insomma, un buon tornaconto per tutti, eccezion fatta per quei poveracci che cantano e che suonano e che dovrebbero invece essere i protagonisti di queste rassegne.

 

LA PATACCA PER CHI VINCE. E POI?

Insomma, gli artisti emergenti pagano per farsi ascoltare e talvolta fanno anche i venditori di biglietti (procurando quindi gli incassi) ed in cambio, quasi sempre, che cos’hanno? La classica patacca (quella non manca mai) e quando va molto bene, una borsa di studio per frequentare un corso in qualche scuola della città sede del festival, cosicchè, per poter utilizzare il premio, se non si tratta di una rassegna locale, gli sventurati si ritrovano a dover percorrere chilometri senza rimborso alcuno (c’è già la borsa di studio, che diamine!). Ci sono poi coloro che si riempiono la bocca (ed i depliants) di “stages”, “master”, “clinic” ed altre simili amenità. Chiamiamoli come vogliamo, sempre di corsi si tratta. Ne siamo pieni, ne abbiamo sin sopra i capelli di corsi. I corsi sono la migliore espressione di una società che non riesce ad andare oltre, non fa il salto di qualità, non concretizza. E’ come il ciclista che sta in “surplace”. Non va né avanti né indietro, sta lì, in attesa di chissà cosa. Ed intanto impara a stare sul sellino senza posare i piedi a terra. Quel virtuosismo non gli servirà a nulla e non gli farà vincere una gara. Ma, mentre è lì, qualcosa dovrà pur fare per non morire di noia. E soprattutto per non rattristarsi, pensando che nella vita ci potrebbero essere tante altre cose da fare e che forse sarebbe il caso di pensare di mollare tutto ed andarsene.

 

CONCLUSIONI

Al cospetto di una situazione come questa, l’appello che mi sento di rivolgere ai tanti artisti emergenti che popolano festival e rassegne è solo uno: ragazzi, state attenti, diffidate da chi vi chiede denaro mascherando questa richiesta con i pretesti più fantasiosi. Chi è approdato ad un successo duraturo (e sottolineo duraturo, quindi non quello dei talent show) ci è arrivato perchè ha conquistato poco alla volta il proprio pubblico, non perchè ha potuto disporre di mezzi economici più vistosi. Non posso fare il nome, ma posso citare il caso di una giovane cantante degli anni Ottanta, figlia di un grosso imprenditore piemontese che un giorno si presentò ad una importante casa discografica, mise sul tavolo 300 milioni di vecchie lire (all’epooca una grossa cifra) e disse: “Mia figlia vuole fare la cantante, pensateci voi”. I discografici provarono a pensarci, la ragazza approdò al festival di Sanremo e fu anche protagonista di un paio di filmetti di cassetta. Ebbe apparizioni televisive, fece serate in tutt’Italia ed incise alcuni dischi, che non vendette. Ma dopo due anni si fece da parte semplicemente perchè si accorse che stava certamente facendo la cantante, ma lo faceva malgrado il pubblico, che continuava ad ignorarla. Alla gente quella ragazza non piaceva e quando si fa una professione che ha bisogno dei favori del pubblico come dell’aria che si respira, se il pubblico non intende ragioni, non c’è denaro che tenga. Con il denaro si comperano passaggi televisivi e si incidono dischi, ma non si compera il successo. Soprattutto quello che, passate le momentanee suggestioni, dovrebbe scandire i ritmi di una carriera e quindi di una professione. Quindi, ragazzi, quando vi chiedono denaro promettendovi ciò che nessuno può promettervi, state alla larga. E ricordate che chi ama davvero la musica avrà sempre piacere di ascoltarvi gratis, ovviamente a condizione che ascoltando voi non cerchi di procurarsi uno stipendio.

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