“Un salto nel buio” è il titolo del nuovo album della band Rocky Horror. Nove tracce, arricchita ciascuna da collaborazioni che in realtà fanno di questo disco una sorta di compartecipazione, più che il lavoro di una band. E’uno di quei casi in cui, più che parlare della musica, si deve parlare dell’insieme. Perché il rap, che altro non è se non la messa in fila, in modo ritmato, di frasi con la rima, è davvero difficile catalogarlo nella categoria delle canzoni.
Almeno da parte di uno come me, che dal tempo delle canzoni proviene e che delle canzoni ha un’idea profondamente diversa, anche senza andare a scomodare la canzone d’autore. Il rap, a ben guardare, è d’autore. Quasi tutti i rapper mettono in fila le loro frasi su di un tappeto musicale, per raccontare le ansie e le difficoltà esistenziali di una generazione che indiscutibilmente si trova a vivere in un mondo complesso. In questo album, s’intuiscono buone individualità musicali, talvolta una chitarra si erge con una certa prepotenza, oppure si colgono poche note, tiratissime, di un sax. E’ sostanzialmente un incontro tra rap e rocck, lo è dal principio alla fine, quasi a voler testimoniare la possibile coesistenza tra questi due generi, che da un certo punto di vista hanno i loro diversi momenti d’avvio in altrettanto diverse fasi di affanno generazionale. Entrare nel contenuto dei testi è arduo. Non perché non sappiano esprimere l’immagine di momenti e situazioni diverse, ma perché, costretto dalle rime, il lessico non può che essere di estrema semplicità, indubbiamente di grande immediatezza, non sempre di altrettanto immediata comprensione. Le tematiche sono intuibili: lo scontro generazionale, il sentirsi non considerati, non coivolti in una societè che si evolve molto rapidamente. Poi le condizioni sociali, talvolta l’indigenza, l’alcool, la rabbia. Ma anche, in alcuni casi, l’identificazione in tutto ciò di un comodo alibi per non provare a vivere. Quando colgo frasi come “…cresciuto all’ombra di una casa popolare/ dove vivere è un diritto che ti devi guadagnare…”, il mio pensiero non può non correre alle generazioni di “martinit” che all’inizio del secolo scorso affollavano gli orfanotrofi. Ragazzi e ragazze senza genitori, cresciuti sino alla maggiore età in istituto e che, fuori di lì, hanno attraversato due guerre. Eppure quasi tutti si sono fatti uomini e donne di assoluta dignità e c’è anche chi è riuscito a fare cariera. Ma qui parliamo di musica, anche se il rap è in questo momento l’espressione musicale che più di ogni altra rappresenta il disagio giovanile. Il disco è “ricco” soprattutto per le tante partecipazioni artistiche; è musicalmente mediocre, fatte salve le individualità che già ho ricordato; la parte cantata/recitata non si discosta e non può discostarsi troppo da un andamento che in questi ultimi anni si è sentito e risentito. E’ un album che può incontrare il gusto dei giovanissimi, più sull’onda delle mode che non su quuello della valenza artistica come tale.