ESTETICA NOIR, TRA MUSICA ED ANIMA

E’ di recentissima pubblicazione l’album “Purity” degli Estetica Noir, preceduto dal singolo “In Heven” che si questa rivista abbiamo già avuto modo di trattare. Abbiamo incontrato la band nel momento in cui sta decollando la promozione di questo lavoro che passerà attraverso un percorso live piuttosto intenso.

Il vostro progetto tende a coniugare il passato con il presente ed anche il futuro, sia come concezione sia come struttura musicale. Come si riesce a “recuperare” il passato senza facili nostalgie ed a guardare al futuro con quello che definirei un realismo virtuale?

Come hai ben spiegato gli Estetica Noir cercano di coniugare il passato degli ‘80 e ‘90, quello che ha caratterizzato la nostra adolescenza e che quindi ci ha segnato profondamente, con le possibilità che la tecnologia offre ai giorni nostri. Il mood è quindi quello del passato, con il gusto per le melodie e la struttura canzone (non come purtroppo avviene nell’ambito dark-goth attuale, nel quale spesso l’importanza del sound sommerge il songwriting); nel nostro caso l’elettronica è al servizio del brano, ne caratterizza l’arrangiamento, non ne influenza la struttura o l’armonia. Nella maggior parte dei casi i nostri brani nascono in modo tradizionale, da improvvisazioni con la chitarra acustica o con il pianoforte, e poi vengono riarrangiati in sala prove o in studio. Per il resto, prescindere dalla nostalgia è praticamente impossibile. Siamo in un’epoca del “mordi e fuggi” e raramente l’ascoltatore medio sofferma la sua attenzione su un brano intero, figuriamoci sulla durata di un album; noi, ormai quarantenni per i 3/4,  siamo i figli della “cassettina” registrata dall’amico o “rubata” durante trasmissioni su radio indipendenti o acquistata mettendo da parte i soldini della paghetta settimanale. E poi siamo nostalgici dei grandi nomi, quelli di band che sfornavano un disco all’anno e facevano tour memorabili ed erano investiti da quell’alone di mistero spezzato solo dalle poche foto che riuscivi a intravedere sulle riviste specializzate. D’altro canto va detto che  però  apprezziamo le possibilità che la tecnologia offre, come quella di essere ascoltati in tutto il mondo, quindi per forza di cose passato e presente dentro di noi hanno finito per coniugarsi…

Rock, dark, pop, heavy metal… i generi musicali si rincorrono e talvolta si arrampicano sugli specchi di improbabili originalità. Voi come vi rapportate con il pubblico e quale messaggio pensate di trasferire a chi vi ascolta?

Negli ultimi vent’anni i generi musicali si sono intrecciati ed evoluti nelle forme più disparate. Da una parte ciò ha creato fantastici ibridi e filoni che hanno determinato nuove frontiere fino a prima inimmaginabili, aprendo le menti e cercando soluzioni coraggiose (purtroppo alle volte a discapito della qualità, ma noi apprezziamo sempre chi si prende dei rischi. Dirò una cosa impopolare, ma col senno di poi, seppure in gioventù ho amato gruppi come Iron Maiden o Ac/Dc, giusto per fare un paio di esempi, trovo insopportabile il fatto che abbiano portato avanti una stessa formula per 15 album, senza mai rischiare nulla… A mio avviso quella non è più arte perché non è ricerca, sperimentazione, voglia di esplorare i propri limiti, ma è solo uno scaltro metodo per rimpinguare il portafogli). Da questo punto di vista, seppur sia ovvio il fatto che ognuno subisce le influenze dei suoi artisti preferiti, il nostro messaggio strettamente a livello musicale, è quello di cercare di esprimere le nostre emozioni attraverso la musica che ci piace e che ci viene spontaneo scrivere, senza seguire pedissequamente una moda ben precisa o lo stile di una band in particolare; purtroppo, se devo essere onesto, ho notato come invece in ambito goth, il pubblico spesso sia un po’ pigro e si accontenti e si adagi e si senta rassicurato solo da un sound “già sentito”, senza provare ad ampliare i propri orizzonti al di là del microgenere musicale di cui è amante. Onestamente non sopporto quelle frasi del tipo “I Cure sono finiti con Pornography”… Come si può pensare che un vero artista ripeta per sempre le stesse cose? Come dicevo prima, a mio avviso, chi lo fa, è perché è artisticamente morto dentro. Poi il risultato può piacere o no, ma  bisogna abbassare sempre il cappello di fronte a chi sperimenta nuovi ambiti e cerca sempre nuove strade, possibilmente lontane da quelle già battute da migliaia di altri prima (vedi l’ormai noioso attuale revival “Joy Division style”…) anche a costo di “arrampicarsi sugli specchi di improbabili originalità”, perché certo non sempre la sperimentazione paga, ma rinunciare a priori fa perdere senso all’arte stessa.

Il vostro lavoro ha una lettura critica nei confronti del concetto di religione. Un argomento estremamente delicato. Al cospetto delle religioni, vi ponete come coloro che le giudicano “fedi” e quindi valori spirituali oppure state con chi le ritiene “credenze” e quindi poco più che leggende?

Innanzitutto tendo a precisare che la lettura critica nei confronti della religione è relegata al solo brano “In Heaven”, il nostro nuovo singolo. Infatti “Purity”, il nostro album, non è un concept album e di conseguenza trae ispirazione da diverse tematiche: alcune più personali, altre a carattere sociale. Rispondendo comunque alla tua domanda, io penso che la fede sia un’esigenza personale, un modo per ancorarsi a qualcosa che dia speranza e felicità, ma rimane un qualcosa di personale e fine a se stessa come potrebbe essere la passione per lo sport o per la musica o altro. Un qualcosa per cui si vive e che ci mantiene a galla nei momenti difficili, ma se si pensa di affidare il proprio destino a un’entità fantasiosa e leggendaria (qualunque essa sia, non mi sto riferendo ad una religione in particolare), penso si stia facendo un grosso errore di valutazione e si stia sprecando tempo in superstizioni e credenze inutili e alibi che possano giustificare il proprio fallimento e la mancanza di volontà nel tirarsi fuori da determinate situazioni di vita complicate. Il discorso è molto complesso e ognuno ha il diritto di pensarla come vuole; ciò che mi mette tristezza è osservare ancora al giorno d’oggi manifestazioni dal carattere quasi medioevale, dettate da miti secolari difficili da sradicare. In definitiva credo nel potere della psicanalisi, non nel verbo di preti e messaggeri vari che nella maggior parte dei casi si disilludono e perdono la fede una volta entrati nell’età della ragione.

Se è vero che l’arte scaturisce spesso dalla spiritualità, voi avete rinunciato alla dimensione artistica o vivete una vostra dimensione spirituale che prescinde da riti e liturgie?

Se per spiritualità si intende un momento di introspezione, allora sì, l’arte stessa diventa una catarsi, un’esplosione di sensazioni ed emozioni forti trasferite nel modo e nella forma ad ogni artista più congeniale. Se per spiritualità si intende invece qualcosa di legato ancora una volta alla religione, allora non vedo il nesso tra le due cose; nei secoli scorsi la musica aveva quasi essenzialmente un legame con le funzioni liturgiche, ma proprio il fatto che venisse commissionata da parte di un sovrano la slegava da ogni forma d’arte, in quanto nata più per “forzatura” che per libera ispirazione (ciò non toglie naturalmente che la sensibilità di fenomenali musicisti ha saputo comunque partorire eccelse opere d’arte anche sotto “forzatura”, ma il nocciolo del discorso sta appunto nella sensibilità dell’artista, non nella divinità come forma di ispirazione). Da questo punto di vista, le parole di Luigi Tenco “scrivo canzoni quando sono triste, perché se sono allegro mi va di uscire e andarmi a divertire”, spiegano perfettamente il concetto: fare arte è un’esigenza interiore e quasi sempre la fonte maggiore d’ispirazione scaturisce dalla vita vissuta e in particolare dai momenti tristi e dolorosi.

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