Allevi, l’Inno di Mameli e i concertisti ingessati

La polemica suscitata in questi giorni dall’esecuzione dell’Inno di Mameli da parte dell’Orchestra Sinfonica della Rai, in questa circostanza diretta da Giovanni Allevi, mette a nudo ancora una volta i limiti e le rigidità di un certo modo di pensare non tanto alla musica come tale, ma al modo di approcciarsi alla  musica o, ancora peggio, a come certi ambienti vorrebbero che ci si approcciasse alla musica.

 

Premesso che, potendo scegliere, in una circostanza come quella dell’apertura delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, al posto di Giovanni Allevi avrei preferito Ludovico Einaudi, quello che risulta incomprensibile è come certi parrucconi che albergano da decenni nelle stanze dei Conservatori, continuino a non volere comprendere che la musica, quella “colta” come loro amano definirla, per raggiungere il grande pubblico e coinvolgerlo, deve essere resa fruibile. E per essere resa fruibile, deve essere affidata a personaggi che sappiano coniugare tutta l’austerità di un mondo rimasto chiuso da sempre nelle sue torri d’avorio e nella celebrazione dei suoi riti, con personaggi accattivanti, piacevoli, simpatici, disinvolti, moderni, ma non per questo meno colti. Giovanni Allevi è indubbiamente uno di questi personaggi, probabilmente non l’unico, ma è un musicista che ha saputo dimostrare che la musica “colta” può essere anche allegria, rinnovata creatività e, perché no, un pizzico di follia. E se in questi ultimi anni una fetta di pubblico che non si sarebbe mai accostata ad un certo tipo di musica lo ha fatto (molti giovani soprattutto), è grazie a personaggi cone Einaudi ed Allevi, non certo ai loro detrattori, ai quali va tutto il rispetto che si deve ai grandi maestri, con la consapevole certezza però che  loro, come molti altri che a loro somigliano, mai avrebbero fatto un passo per scendere dai loro scranni dorati verso un pubblico che, anche dal mondo della musica “colta”, si aspetta da tempo quel rinnovamento che tarda ad arrivare. Ed allora dovremmo capire cosa accade all’interno dei Conservatori. Comprendere per quale ragione musicisti che li frequentano per un decennio, eppoi continuano forsennatamente a studiare, alla fine si rivelano dei replicanti, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, tutti austeri allo stesso modo, ingessati in egual misura ed incapaci di divenire loro stessi compositori, anziché limitarsi al ruolo di esecutori, spesso senza slanci e senza fantasia, dei brani certamente immortali dei grandi compositori del passato.Finchè non usciremo da questo equivoco, non cesseranno le polemiche tra chi confonde la musica “colta” con la noia della ripetitività  e chi invece si sforza di cercare nuove chiavi di lettura, rischiando in prima persona. E, infine, ben vengano le contaminazioni tra diverse espressioni musicali, ma anche tra diversi artisti. Un primo violino di una grande orchestra sinfonica, per quale ragione non dovrebbe poter stare occasionalmente nella formazione di una rock band? Esattamente come Pavarotti seppe stare accanto a Zucchero e tante altre “rock star”, senza per questo considerarsi un eretico ed anzi, portando la lirica in ambienti ove nessuno mai l’avrebbe cercata.

 

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