C’è sicuramente del buono in questo “La macchina del tempo”, il primo album di Rickson, al secolo Cesare Capuani, autore, cantante e polistrumentista che in un paesino della Toscana, sull’Appennino, ai confini con la Romagna, favorito da una situazione ambientale invidiabile, ha realizzato il proprio studio di registrazione dove svolge la sua attività artistica e dove ha dato vita al progetto di questo album che è anche il primo della sua carriera.
Dicevo che c’è del buono, ma il buono che ho trovato poeva essere serenamente sintetizzato in un Ep perchè, come spesso accade, quando la produzione è eccessiva, rischia di diluirsi e di disperdere l’attenzione di chi ascolta. Va detto poi che avventurarsi in dodici tracce inedite alla prima uscita discografica è, a dir poco, un azzardo che a mio avviso possono permettersi solo nomi altisonanti che il pubblico accetterebbe anche se leggessero le pagine gialle. Guardiamo gli aspetti positivi: Rickson ha una buona vocalità, sa certamente comporre, ha una dimensione quasi sempre cantautorale, nel senso che cerca la soluzione narrativa con i suoi testi e, dunque, racconta storie e lo fa allestendo situzioni e suggerendi sensazioni che, con alcune delle sue canzoni, arrivano in modo piuttosto diretto. Musicalmente parlando, in questo disco c’è troppa enfasi alla chitarra elettrica che, certo, contribuisce a fare volume negli arrangiamenti, ma che rischia di rendere ripetitivi alcuni brani. Le linee melodiche sono buone in un paio di circostanzem discrete in un altro paio e davvero poco convincenti in almeno tre brani. Ma facciamom nomi e cognomi: “Sembra tutto perfetto” è, a mio avviso, il brano migliore, reca in sè un qualcosa di quasi magico e nel contempo malinconico e si sviluppa con molta coerenza nel suo andamento; “Dove nessuno è mai stato” è un altro buon brano ed è buono anche “In cerca di niente” (dove fa capolino un po’ di Grignani style). Maglia nera, sempre a mio avviso, a “Prigione”. Ma, al di là delle singole valutazioni, che devono comunque tener conto di un calo fisiologico proprio in quasi tutti gli album ed ancor più quando ci si avventura su dodici tracce, si possono comunque cogliere qui e là spunti che rivelano una buona ispirazione ed anche una cifra artistica costante, vale a dire che Rickson non si è lasciato guidare dalla tentazione di mettere nel calderone di tutto un po’ e rimanere a guardare l’effetto che fa. Lui ha una linea definita ed una struttura compositiva sulla quale poggia tutte le sue canzoni. Prendendosi anche il rischio di venire un po’ a noia dopo la prima manciata di brani.