Lyre (al secolo Serena Brindisi, performer milanese) ha al suo attivo un percorso teatrale sfociato poi, lontano dall’Italia, nella ricerca di una dimensione musicale più consona alla propria passione. Un percorso di ricerca con il palese obiettivo di uscire dall’anonimato e dal consueto modo di pensare alla musica, pur con tutte le sue sfaccettature, proiettandosi verso orizzonti in cui la musica elettronica andasse ad incontrare la sua voce (o viceversa). Il problema è che la musica elettronica, che può risultare in alcuni contesti estremamente interessante, in altri si rivela alla fine null’altro che un insieme di effetti scoordinati ed immotivati.
E’ un po’ il caso di queste quattro tracce, contenute nell’Ep intitolato “Queer Beauties”, che suscita più d’una perplessità ed anche qualche rammarico. S’inizia con “Embers”, che ha un avvio intriso di mistero finchè non incontra la voce di Lyre con la quale non si fonde, ma va ad avvitarsi intorno ad una serie di suoni ed effetti che evocano la colonna sonora di un film horror con una linea melodica approssimativa. “Mirrors” appare nella prima fase vocalmente più interessante, per poi affondare nella ricerca di effetti e suoni non sempre compatibili con quanto si va ascoltando. In “Dorothy” la voce pare giocare con sè stessa tanto che avrebbe potuto essere registrata da sola, contornandola poi con una dimensione musicale completmente avulsa dal contesto. E si va a chiudere con “Broken Flowers” senza individuare elementi di diversità rispetto all’insieme di un progetto davvero difficile da interpretare. Parlavo poco sopra di perplessità e rammarico. Le perplessità sono tutte rivolte alla scelta di un progetto al quale ciascuno può dare la propria interpretazione (cone accade con l’arte contemporanea) ma probabilmente nessuno ci capirà nulla (come con l’arte contemporanea). Il rammarico riguarda invece la voce di Lyre che lascia intuire buone potenzialità soffocate però da una ricerca che non va sopra le righe, ma ne esce.